Una domanda su "outsourcing"
Moderatore: Cruscanti
Una domanda su "outsourcing"
Sulla lista ho notato che sulla lista di traducenti manca la parola 'delocalizzazione' per 'outsourcing.' Perché? Io ho visto questa parola parecchie volte in rete. Sono semplicemente curioso.
Il GRADIT rimanda(va) da outsourcing a deverticalizzazione nella versione cartacea; in quella elettronica, invece, deverticalizzazione è solo dato come sinonimo.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Re: Una domanda su "outsourcing"
Perché a rigore outsource significa «subappaltare il lavoro ad altri», e quindi outsourcing è esternalizzazione (o anche deverticalizzazione, ma mi sembra un traducente meno trasparente), non delocalizzazione.Dario90 ha scritto:Sulla lista ho notato che sulla lista di traducenti manca la parola 'delocalizzazione' per 'outsourcing.' Perché?

Delocalizzare può essere un modo di esternalizzare, ma concettualmente sono due cose distinte.
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Decimo ha scritto:Per i curiosi: dell’innecessario terzizzazione una manciata di occorrenze in Rete c’è, perlopiú in traduzioni dal portoghese.
In realtà, terziarizzare è registrato dal GRADIT anche nell’accezione che qui c’interessa (sott. mia):Brazilian dude ha scritto:Ma sarebbe più probabile che un lusofono non molto competente lo traducesse come terziarizzazione invece della forma che lei indica.
terziarizzare /tertsjarid'dzare/ (ter-zia-riz-za-re) v.tr. [TS] econ. [1973; der. di terziario con -izzare] 1 convertire un’attività del settore primario o secondario in una del settore terziario 2 trasferire funzioni e servizi di un’azienda a una struttura esterna.
E il problema è sempre quello: chi usa questi termini italiani? Il gusto dell’anglicismo riempicomevvuoi (per occultare la chiarezza del pensiero e sfoggiare pseudocultura) è la caratteristica dell’odierna Italia. 

Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Io ho l'impressione che l'italiano sia considerato "comico" e "buffo" rispetto all'inglese, percepito come "serio" e "professionale". Mi è accaduto più di una volta che, di fronte al mio invito a usare termini italiani per evitare il ridicolo dell'itanglese, il mio interlocutore storcesse il naso dicendo «Ma no, che brutto».
Dove starebbe la bruttezza? Allora è proprio come dice Marco: l'uso dell'inglese ha uno scopo esclusivo, serve a creare una lingua da "iniziati", rendendo poco perspicuo ai profani il significato di ciò che si sta dicendo. Ma questo è tutto il contrario dell'obiettivo di una lingua, che è facilitare la comunicazione.
Scusatemi lo sfogo e il fuori tema.
Dove starebbe la bruttezza? Allora è proprio come dice Marco: l'uso dell'inglese ha uno scopo esclusivo, serve a creare una lingua da "iniziati", rendendo poco perspicuo ai profani il significato di ciò che si sta dicendo. Ma questo è tutto il contrario dell'obiettivo di una lingua, che è facilitare la comunicazione.
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Credo, caro Roberto, che i risultati della ricerca appena condotta sui siti del Corriere della Sera (CS) e della Repubblica (R) siano eloquenti abbastanza:
deverticalizzazione: CS 5, R 0
esternalizzazione: C 148, R 150
terziarizzazione: CS 535, R 158
outsourcing: CS 1570, R 2640
Non trova?
deverticalizzazione: CS 5, R 0
esternalizzazione: C 148, R 150
terziarizzazione: CS 535, R 158
outsourcing: CS 1570, R 2640
Non trova?
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Certo che l’uso della lingua non si esaurisce in questi due quotidiani, ma sono considerati dai linguisti come quelli dalla lingua piú sorvegliata (rispetto ad altri). Se nell’uso controllato di questi due quotidiani vediamo la preponderanza del forestierismo sulle possibili altre soluzioni nostrali, c’è da scommettere che nell’uso meno scelto (si esclude il parlato, ché questi termini non si adopererebbero se non in conversazioni settoriali) il primeggiare dell’anglicismo sia ancora maggiore.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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