Vi ringrazio fin da subito! Buon pomeriggio!

Moderatore: Cruscanti
Grazie per il benvenuto e soprattutto per il suggerimento! Lo vado a cercare subito, magari potrà offrirmi qualche spunto!Infarinato ha scritto:Ovviamente c’è sempre il fondamentale saggio del Klajn, che tratta anche (ma non esclusivamente) dell’uso degli anglicismi nel giornalismo italiano.
Purtroppo non so dirle se esitano studi piú specifici (e piú recenti): con tutta probabilità, sí.
P.S. Benvenuta!
Grazie mille, sarà già un punto di partenza!Ferdinand Bardamu ha scritto:Benvenuta anche da parte mia.Una ricerca molto rapida su Google mi ha dato questo risultato: «Anglicismi giornalistici in italiano all’epoca della globalizzazione». Non ho ancora avuto tempo di leggere quest’articolo, ma, a prima vista, mi sembra interessante.
Sí, ma c'è di piú: sempre sulla scorta di Klajn, è opportuno ricordare che anglicismi simili sono rianalizzati come se fossero parole strutturalmente italiane, che seguono quindi l’ordine nome-aggettivo.Maria Malinowska ha scritto:… gli accorciamenti operati in italiano, modificanti solo il significante, che portano alla nascita di pseudoanglismi come il talk e il reality o il talent potrebbero essere conseguenza del principio dell’economia linguistica che riduce al minimo la presenza di tratti pertinenti a ogni livello di lingua anche a quello semantico.
Questo articolo incontrerà la disapprovazione del 99% dei frequentatori di Cruscate, perché è puramente descrittivo, come d'altro canto ci si potrebbe aspettare da una persona di ambito accademico. Comunque non dice niente che non si sappia già.Ferdinand Bardamu ha scritto:Benvenuta anche da parte mia.Una ricerca molto rapida su Google mi ha dato questo risultato: «Anglicismi giornalistici in italiano all’epoca della globalizzazione». Non ho ancora avuto tempo di leggere quest’articolo, ma, a prima vista, mi sembra interessante.
Segnalo inoltre i seguenti lavori (che non ho avuto [ancora] il tempo di leggere!):Ferdinand Bardamu ha scritto:Una ricerca molto rapida su Google mi ha dato questo risultato: «Anglicismi giornalistici in italiano all’epoca della globalizzazione».
Ho letto velocemente il saggio di Gilda Rogato, anche qui, non si legge niente di nuovo per chi abbia studiato un po' l'argomento, è difficile dire cose veramente nuove dopo tutto quello che ha scritto Bruno Migliorini in merito. Ma per fare felici i cruscanti, riporto una risposta di Maurizio Dardano data nel saggio alla seguente domanda:Infarinato ha scritto:Segnalo inoltre i seguenti lavori (che non ho avuto [ancora] il tempo di leggere!):
- Marja Komu, Anglicismi nella stampa italiana, Tesi di laurea in filologia romanza, Università di Jyväskylä, 1998;
- Gilda Rogato, Anglicismi nella stampa italiana, Università degli Studi della Calabria, (av.) 2009.
D - La stampa, nata con l'obiettivo di informare, oggi mira a catturare l'attenzione e a divertire il lettore. La spettacolarizzazione della notizia richiede un linguaggio più sciolto e immediato. Lei crede che la lingua inglese, dotata di una certa flessibilità sintattica e semplicità lessicale, possa diventare un modello per il moderno stile giornalistico che va semplificandosi sempre di più?
R. Dardano - Non credo che sia necessario rifarsi sempre al modello inglese per rendere più moderna e più semplice la lingua italiana. L’italiano ha in sé le possibilità e i mezzi per venire incontro alle esigenze della vita moderna. Chi invoca comunque l'intervento dell'inglese nella nostra sintassi e nel nostro lessico ha in genere una conoscenza mediocre della nostra lingua.
Per la mia esperienza d'insegnante posso dire che gli italiani che non sanno scrivere in modo decente, credono di risolvere tutto o quasi tutto con l'inglese. Si sbagliano.
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