Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

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G. M.
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Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

Intervento di G. M. »

[Filone aperto col permesso dei moderatori]

Da anni sogno una riforma ortografica per l’italiano, che renda immediatamente riconoscibile, senz’ambiguità, la pronuncia delle parole a partire dalla sola grafia. I motivi sono, in sintesi:
  • un desiderio di facilità per me, che:
    • spesso mi sono trovato e mi trovo a sbagliare pronunce di nomi e termini rari, o anche frequenti, che però la mia abitudine o il mio uso regionale hanno imparato male;
    • fatico a rammentare le pronunce, mentre memorizzo con maggiore facilità le grafie (la cosa per me è marcatissima coll’inglese);
    • così potrei sapere sùbito come si pronuncia qualsiasi termine ignoto che mi càpiti d'incontrare, senza andarlo a cercare sul DOP (…o peggio, a fare ricerche indipendenti [1, 2], ancorché divertenti :P);
  • un desiderio di completezza per la lingua in generale: ammiro lo spagnolo, col suo sistema logico e quasi perfetto al riguardo;
  • (va da sé, un desiderio di maggiore facilità per gli stranieri che studino l’italiano);
  • un desiderio di continuità e conservazione: i caratteri peculiari dell’italiano di base toscana rischiano di perdersi se non ben rappresentati nella grafia (questo è un elemento che è maturato in me poco alla volta, più lentamente).
Si possono elaborare tante soluzioni diverse a questo problema, e lungo i secoli vari linguisti e letterati si sono cimentati nell’impresa (qui la proposta di Castellani).

Nel 2020, di ritorno da un viaggio in terra ispanoamericana, preso da entusiasmo linguistico elaborai una proposta che pubblicai poi l’anno seguente, in un volume che ne discuteva i vari aspetti.

I punti principali della proposta erano i seguenti (legenda: A⟨ ⟩ = grafia Attuale; N⟨ ⟩ = grafia Nuova proposta):
  • Z — Zeta dolce (/ʣ(ʣ)/) e zeta dura (/ʦ(ʦ)/) vanno denotate rispettivamente con ⟨ʒ⟩ per /ʣ(ʣ)/ e ⟨z⟩ per /ʦ(ʦ)/. Es.: N⟨pozzo, zucca, garʒa, bronʒo⟩.
  • S — Esse dolce (/z/) ed esse dura (/s/) vanno denotate rispettivamente con ⟨ʃ⟩1 per /z/ e ⟨s⟩ per /s/. Es.: N⟨seta, riso, viʃo, aʃma⟩.
  • X — Nei casi in cui A⟨x⟩ abbia la pronuncja /ɡz/, anziché la più comune /ks/, la denoteremo con ⟨x̣⟩. Es.: N⟨Xanto, xilografia, ex̣emia, ex̣eunte⟩.
  • I, U — Dove A⟨i⟩ e A⟨u⟩ hanno valore consonantico (/j/, /w/), si denotano rispettivamente con ⟨j⟩ e ⟨ʋ⟩. Dove A⟨i⟩ ha valore solamente diacritico (o etimologico), si denota con ⟨j⟩. Es.: N⟨manuale, Riace, qʋindi, gʋanto, scjame, sciare, mancja, magia⟩.
    Per la precisione, proponevo una forma di ⟨ʋ⟩ un po’ diversa da quella con cui il grafema è rappresentato di solito: anziché con un fondo curvo, con un angolo in basso a sinistra.
  • GLI — Nei casi in cui A⟨gli⟩ dia una pronuncia /ɡli/ o /ɡlj/ (anziché la più consueta /(ʎ)ʎ(i)/), si userà una scrittura diversa, rispettivamente ⟨ghli⟩ e ⟨ghlj⟩. Es.: N⟨paglja, figljo, ganghljo, anghlicano⟩.
  • E, O — Quando A⟨e⟩ e A⟨o⟩ si pronunciano aperte (/ɛ/, /ɔ/) si scrivono ⟨ɛ⟩ e ⟨ɔ⟩. Es.: N⟨cena, come, bɛllo, ɔro, pɔrtapenne, sɛicɛntodue⟩.
  • ACCENTO — In una parola con due o più vocali, l’accento si segna quando non cade sull’ultima vocale prima dell’ultima lettera. Ovvero, distinguendo:
    • se la parola finisce per vocale, l’accento si segna se non cade sulla penultima vocale;
    • se la parola finisce per consonante, l’accento si segna se non cade sull’ultima vocale.
    L’accento è sempre acuto: ⟨´⟩. Es.: N⟨fábbrica, flúido, portándoceli, áula, paura, altruista, pendii, dio, cacao, suo, avventura, cosí, Catmandú, perché, caval donato, métter mano⟩.
Lasciavo irrisolti due punti importanti:
  • che forma usare per la ⟨ʃ⟩ maiuscola;
  • come rappresentare il raddoppiamento fonosintattico (di qui in avanti anche RF /ɛrreɛ̍ffe/).
Il sistema così definito aveva un’alta linearità e semplicità funzionale: praticamente tutte le novità si movevano in direzione d’una corrispondenza biunivoca tra grafemi e fonemi. Può notarsi una certa somiglianza colla proposta di Trissino2.

Un esempio di brano dal libro scritto con questa proposta:

Il mio lettore che ɛ́ arrivato fin qʋi sará probabilmente un pɔ’ perplɛsso sulla ragjonevolezza e le opportunitá di qʋesta riforma gráfica. Tutti qʋesti accɛnti, le léttere strane e nʋɔve, gli rallɛ́ntano la lettura, la appesantíscono, lo costríngono a fermarsi sulle síngole parɔle perdɛndo il filo del discorso.
    Ɛ́ inevitábile che sia cosí; sarɛbbe strano il contrarjo! Dirɛi che ɛ́ persino gjusto che sia cosí. Chi per tutta la vita, fin da bambino, ɛ́ stato abituato a scrívere e lɛ́ggere sɛmpre in un cɛrto mɔdo, pɔrta profondamente radicate dentro di sé, in mɔdo istintivo oltre che cɔnscjo e razjonale, le forme e i meccaniʃmi di qʋel sistɛma gráfico. Se ci dícono a voce un nome o una parɔla italjana che non abbjamo mai sentito e non conoscjamo, di sɔ́lito sappjamo comunqʋe come scríverla da súbito, in mɔdo istintivo, sɛnza biʃogno di ragjonare su qʋali símboli scritti, o combinazjoni di símboli scritti, sɛ́rvono per rappreʃentare qʋella data seqʋɛnza di sʋɔni. Ɛ́ gjɔcofɔrza, qʋindi, che un sistɛma divɛrso, appena introdotto, cáuʃi una sensazjone di disturbo e di difficoltá, di rallentamento: cɔzza contro decɛnni di abitúdine consolidata e mai messa in discussjone.
    Tuttavia, qʋesto non ɛ́ un problɛma.
[…]

Con mia grande sorpresa e piacere, il libretto —per essere un’opera tanto di nicchia— ebbe un’accoglienza molto positiva: tanti si dissero favorevoli a una riforma di questo tipo, che rappresentasse in modo più completo la pronuncia, e ricevetti commenti e critiche competenti e intelligenti, alcuni anche che mi sorpresero per l’originalità del punto di vista3.

Seguendo uno di questi commenti, che mi colpì sùbito come cosa ovvia («…Ma come ho fatto a non pensarci?!»), decisi di cambiare la proposta per la zeta. Avevo optato per
  • /ʦ(ʦ)/ > N⟨z⟩;
  • /ʣ(ʣ)/ > N⟨ʒ⟩;
per avere una distanza minima dalla grafia attuale, rappresentandole entrambe oggi con ⟨z⟩ ed essendo /ʦ(ʦ)/ molto più frequente. Il commento (che ora non ritrovo: vado a memoria) faceva notare che si sarebbe avuta una coerenza molto maggiore col latino, il greco e le lingue sorelle usando invece ⟨z⟩ per /ʣ(ʣ)/ e una qualche ⟨t⟩ modificata per /ʦ(ʦ)/. Mi sembrò una buona idea: confrontando varie ⟨t⟩ diacritizzate, chiedendo anche ad altre persone, la più leggera graficamente mi parve una ⟨t⟩ con la terminazione inferiore d’una ⟨j⟩, una «ti lunga», se vogliamo: con felice coincidenza, un carattere anche sensato etimologicamente, visto che /ʦ(ʦ)/ in italiano nasce da una contrazione di /tj/; e addirittura, scoprii dopo, una cosa simile si fece in tempi antichi4, il che mi parve ottimo. In Unicode il carattere al momento non esiste; si può approssimare con ⟨ţ⟩, o con ⟨ț⟩, che in rumeno vale proprio /ʦ/. Usando una ⟨t⟩ diacritizzata si sarebbero anche rese più visibili molte relazioni infraitaliane: forte e forza, influente e influenza, avanti e avanzare, alto e alzare, arguto e arguzia, palazzo e palatino, cantare e canzone, grato e grazie, Marte e marziano, dritto e drizzare

Per la A⟨x⟩, la mia preferenza da purista strutturale andava e va, naturalmente, all’adattamento (exeunte > eseunte): proponevo una distinzione anche per questo elemento per completezza, perché la proposta offerta al pubblico voleva riguardare solo la pronuncia, in tutti i suoi caratteri e [quasi] indipendentemente da altri aspetti di «cura della lingua». Ripensandoci, però, credo che sia più semplice, qui, proporre effettivamente l’adattamento, e quindi il cambiamento della pronuncia, anziché distinguere due iccasi diverse.

Alla fine dell'anno scorso ho [auto]pubblicato un libretto di tema non linguistico, una mia traduzione, usando questa nuova regola per la A⟨z⟩.

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Una pagina del libro (potete vedere la ti lunga e la ⟨ʋ⟩ «angolata» disegnate da me):

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Arriviamo finalmente al punto per cui ho aperto il filone. (Alleluja, dirà il lettore :mrgreen:).

Per certe cose sono una persona cronicamente indecisa, e da qualche tempo ho dei dubbi su tutto l’impianto di questa mia proposta.

Prima di parlare dei dubbi «in negativo», un’osservazione —un dubbio «in positivo»— sull’RF. Ho notato varie volte, a distanza di anni, che se m’impegno a leggere attentamente queste grafie riformate —se mi “costringo” a pronunciare correttamente l’italiano, emendandolo dai miei tratti regionali— dopo un po’ mi esce quasi spontaneamente anche l’RF, benché non sia rappresentato nella grafia. Non so se si tratti di autosuggestione, o se in qualche modo esso emerga quasi naturalmente dalla lingua, una volta che s’inizi a parlare più toscanamente. Comunque è una curiosità interessante, e se fosse condivisa naturalmente sarebbe importante per le soluzioni da adottare (o da non adottare) per rappresentare graficamente l’RF.

Veniamo ora ai dubbi, in ordine sparso.
  • Dubbio generale: la riforma così pensata è molto lineare, ma è anche alquanto “isolazionista”. Mi dispiace questa distanza con le altre lingue latine (e “latinografe” in generale), e mi chiedo se si potrebbe ridurla, eventualmente riducendo la linearità e semplicità delle nuove regole proposte.
  • Ultimamente, per ragioni indipendenti da questa riforma, mi sono trovato a consultare molto il DOP, e com’era già stato per il caso di neo- si è rafforzata in me l’impressione che, se l’autorevole dizionario segue un qualche principio rigoroso e prevedibile per la determinazione delle aperture fuor d’accento primario, questo non è chiaro, o almeno non lo è per me.
    La mia proposta introduceva grafemi specifici per l’e e l’o aperte anche per renderne immediata l’indicazione fuor d’accento primario. Ma ha senso volere uno strumento specifico per indicare un elemento tanto fine… se poi in molti casi non sappiamo quale sia l’elemento da indicare, o la sua indicazione appare in gran parte arbitraria? Mi chiedo se non sarebbe più sensato, in tal caso, abbandonare del tutto la rappresentazione di /ɛ/ e /ɔ/ fuor d’accento primario (anche se in qualche caso può essere utile, e in certi casi la determinazione dell’apertura è piuttosto facile). :?: In tal caso, potremmo abbandonare del tutto le lettere aperte e tornare agli accenti grave e acuto, con una regola del genere:
    • E, O — Quando A⟨e⟩ e A⟨o⟩ si pronunciano aperte (/ɛ/, /ɔ/), e sono sotto accento primario della parola, si scrivono ⟨è⟩ e ⟨ò⟩. Se sono aperte ma non sono sotto accento primario, continuano a scriversi ⟨e⟩ e ⟨o⟩. Es.: N⟨mèzzo, nòtte, mezzanòtte, tòsta, tostapane, sèi, cènto, seicènto, seicentodue⟩.
    • ACCENTO — In una parola con due o più vocali, se non è già segnato da una N⟨è⟩ o N⟨ò⟩, l’accento si segna se non cade sull’ultima vocale prima dell’ultima lettera.
      Quest’accento si segna grave sulla ⟨a⟩, acuto negli altri casi: ⟨à⟩, ⟨é⟩, ⟨í⟩, ⟨ó⟩, ⟨ú⟩. L’eventuale accento secondario non si segna. Es.: N⟨àula, paura, flúido, taccuino, órdine, portàndoceli, pendii, perché, caval donato, métter mano⟩.
    La soluzione avrebbe vari pro:
    • è alquanto “integrazionista”;
    • è meno lineare, ma comunque piuttosto facile da maneggiare;
    • è più tradizionalista, non richiedendo grandi cambiamenti logici rispetto all’uso attuale dei simboli;
    • facilita la comprensione dei due timbri vocalici come “varianti” di una stessa lettera, mentre la cosa era meno chiara coll’uso di due grafemi diversi;
    • graficamente, la possibilità di confusioni fra ⟨ò⟩ e ⟨o⟩ è minore di quella fra ⟨ɔ⟩ e ⟨o⟩ —non so per quella fra ⟨ò⟩ e ⟨ó⟩—;
    ma anche dei contro:
    • (non ci dà modo di rappresentare /ɛ/ e /ɔ/ fuor d’accento);
    • fa crescere molto il numero di segnaccenti, rendendo la scrittura alquanto pesante.
    Quest’ultimo punto è importante e può disturbare5. Però:
    • è vero quello che diceva Castellani:
      Dal punto di vista «estètico», gli accènti parranno tròppi. Mâ il bèllo ê il brutto, in questo campo, sono escluşivamente question d’abitùdine. Una pàgina in grèco non sembra cèrto brutta â nessuno… E â chî verrèbbe in mente di lamentarsi perché in franceşe ci son paròle con due ô trê accènti ciascuna [...]?
    • il disturbo, mi pare —qui s’introduce il senso estetico d’ognuno—, può essere ridotto considerevolmente scegliendo un carattere tipografico adeguato —o, idealmente, facendosene disegnare uno ad hoc—: per esempio, mi pare che l’abbondanza di diacritici si noti relativamente poco, a colpo d’occhio, usando lo STIX Two Text o il Palemonas MUFI.
  • La ti lunga crea una sequenza graficamente pesante quand'è seguìta da un’i lunga (approssimiamo: ⟨țj⟩); e la sequenza, per ragioni etimologiche, è purtroppo alquanto comune (potete vederla varie volte nella pagina fotografata sopra). Mantenendo ⟨j⟩, si potrebbe ridurre l’effetto di pesantezza grafica cercando una soluzione per /(ʦ)ʦ/ che non usi lettere che si allungano in basso. Ma quale? Idee varie:
    • ⟨tz⟩; e quindi per esempio ⟨tzucca⟩, ⟨letzjoso⟩, ⟨tzio⟩, ⟨altzjamo⟩. Pro:
      • soluzione relativamente tradizionalista, visto che «in ‹italiano› il digramma tz s’è sempre letto /(ʦ)ʦ/»; si veda anche il DOP;
      • soluzione relativamente integrazionista, che mette insieme la ⟨t⟩ delle grafie italiane antiche (⟨Politiano⟩, ecc.), e di latino-inglese-francese, colla ⟨z⟩ della grafia italiana odierna;
      contro:
      • se N⟨z⟩ vale /(ʣ)ʣ/, N⟨tz⟩ per /(ʦ)ʦ/ è “logicamente” sensata? Non avrebbe più senso, allora, ⟨ts⟩?
      • ⟨tz⟩ è esteticamente gradevole? Non mi sembra un gruppo molto italiano. O è solo l’abitudine? Probabilmente a certi stranieri il nostro frequente ⟨zz⟩ apparirà «stridente», ma noi non ci facciamo caso… e ⟨tz⟩ non so se sia molto peggio.
      Come fare con le doppie? A⟨pazzia⟩ > N⟨patzia⟩ o N⟨pattzia⟩?
    • ⟨ts⟩; e quindi per esempio ⟨tsucca⟩, ⟨letsjoso⟩, ⟨tsio⟩, ⟨altsjamo⟩. Pro:
      • facilmente comprensibile;
      • graficamente “scorrevole”, gradevole;
      contro:
      • introduce una possibile confusione fra /(ʦ)ʦ/ e /ts/, sequenze non chiaramente equivalenti (come ha notato brg, si tende ad avere un’assimilazione /ts/ > /ss/); con ⟨tz⟩ questo problema non ci sarebbe perché in italiano non esiste una sequenza /tʣ/;
      come fare con le doppie? A⟨pazzia⟩ > N⟨patsia⟩ o N⟨pattsia⟩?
    • ⟨z⟩ per /(ʣ)ʣ/ e ⟨zz⟩ per /(ʦ)ʦ/; e quindi per esempio ⟨zzucca⟩, ⟨lezzjoso⟩, ⟨zzio⟩, ⟨alzzjamo⟩, ⟨razo⟩ (‘🚀’, non ‘arazzo’), ⟨rozo⟩, ⟨grezo⟩, ⟨zodíaco⟩, ⟨zénzero⟩. Pro e contro misti: bella e naturale in certi casi, bruttina e strana in altri; fa sparire la necessità ortografica di rammentarsi quando la zeta vada scritta scempia o doppia, cosa comoda sotto certi aspetti, negativa sotto altri; più chiaramente per il contro: in ogni caso ⟨zz⟩ iniziale non è molto bello, e si abbandonano le vicinanze grafico-etimologico-integrazioniste date da zeta per /(ʣ)ʣ/ e ti-qualcosa per /(ʦ)ʦ/.
    • ⟨ż⟩; e quindi per esempio ⟨żucca⟩, ⟨leżjoso⟩, ⟨żio⟩, ⟨alżjamo⟩. Pro:
      • vicina alla grafia attuale;
      contro:
      • un altro diacritico, e frequente: pesantuccio;
      • le vicinanze grafico-etimologico-integrazioniste sono mantenute per ⟨z⟩, mentre per ⟨ż⟩ non in modo evidente.
      Se il puntino è troppo anodino o arabeggiante, si può valutare una più briosa tilde [un titolo?] (⟨z̃ucca⟩, ⟨lez̃joso⟩, ⟨z̃io⟩, ⟨alz̃jamo⟩), un segnaccento (⟨źucca⟩, ⟨leźjoso⟩, ⟨źio⟩, ⟨alźjamo⟩), il circonflesso (⟨ẑucca⟩, ⟨leẑjoso⟩, ⟨ẑio⟩, ⟨alẑjamo⟩)...
    • ⟨th⟩; e quindi per esempio ⟨thucca⟩, ⟨lethjoso⟩, ⟨thio⟩, ⟨althjamo⟩. Idea bislacca, unendo la ti etimologica e l’acca diacritica italiana. Pro:
      • sequenza classicheggiante, esteticamente gradevole;
      • in qualche caso coincide esattamente col latino [che adatta il greco] (lat. thium, it. A⟨zio⟩, N⟨thio⟩);
      contro:
      • forse poco immediata;
      • non cj azzecca molto con ⟨th⟩ in generale nelle altre lingue;
      come fare con le doppie? A⟨pazzia⟩ > N⟨pathia⟩ o N⟨patthia⟩?
  • La ⟨ʃ⟩ mi piace dal punto di vista grafico, ha un’ariosità rinascimentale, la preferisco molto, esteticamente, a tutte le ⟨s⟩ diacritizzate che ho visto finora. Tuttavia:
    • la sequenza ⟨ʃj⟩ (⟨fuʃjone⟩, ⟨Aʃja⟩, ⟨ginnaʃjo⟩…), per quanto ben più rara di ⟨țj⟩, è comunque non bellissima, spesso anche nei caratteri che —a volte per mia specifica richiesta :mrgreen:— hanno la legatura apposita (Brill, Junicode, STIX Two Text);
    • sono ancora totalmente senza idee per la maiuscola. Varie forme considerate: ⟨Ʃ⟩, ⟨ᘕ⟩, ⟨ᘔ⟩, ⟨Ꞇ⟩, ⟨Ϛ⟩, ⟨Ҁ⟩, ⟨ↅ⟩, ⟨ʕ⟩, la maiuscola qui alla 3ª riga, 8ª colonna; nessuna che mi convinca particolarmente…
    Per il primo punto, di nuovo può venire in soccorso un carattere tipografico adeguato; anche sotto questo punto trovo interessante il Palemonas MUFI, che colla sua curiosa ma elegante ⟨ʃ⟩ asimmetrica e la ⟨j⟩ molto “dritta” riduce la sensazione di “accalcamento”, ingombro…
  • La ⟨ʋ⟩, che già al tempo mi aveva fatto pensare molto, mi convince poco. Non è né carne né pesce, si può confondere facilmente con ⟨u⟩ e ⟨v⟩… non appartiene a nessuna lingua a noi prossima… Ma che fare allora? Ho ripensato addirittura alla ⟨w⟩ (⟨gwanto⟩, ⟨qwesto⟩, ⟨twòno⟩); o di non avere un carattere specifico per /w/, e quindi avere dei digrammi, come ⟨qv⟩ e ⟨gv⟩ (…però sarebbe bello avere una soluzione più o meno simmetrica per i e u); ma sono ancora in alto mare.
Quindi, arrivando alla fine di questo lunghissimo primo intervento… se non siete svenuti nel frattempo: avete suggerimenti, consigli, pareri, idee?

Preciso che al momento —visti i mille dubbi [...oltre la probabile contrarietà dell'editore :mrgreen:]— non ho in programma di pubblicare presto una nuova edizione del volume con cui presentavo la proposta; ma se i dubbi dovessero risolversi, o almeno alleviarsi, siate certi che citerò chiaramente tutte le idee migliori nei luoghi appropriati dove mi troverò a scriverne. :)

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NOTE
  1. Se ⟨ſ⟩ è l’«esse lunga», ⟨ʃ⟩ potrebbe chiamarsi «esse bislunga».
  2. Oggi ci sembra una banalità distinguere ⟨u⟩ /u, w/ e ⟨v⟩ /v/, ma al suo tempo non erano distinte, e la distinzione che usiamo oggi è quella da lui proposta.
  3. Ne riporto uno che mi colpì, per l’approccio molto diverso ma degno di nota:
    […] In linea di principio, al di là delle scelte grafiche proposte, sarei d'accordo a marcare l'accento sulle parole non piane, a distinguere le s e le z, a ragionare sulle i vocaliche, consonantiche e diacritiche,... Sono più scettico sull'apertura delle <e> e delle <o>. Mi sarebbe piaciuto sentire le vostre opinioni sulle alternanze vocaliche nella coniugazione dei verbi. Non mi riferisco ai cosiddetti dittonghi mobili, ma ai casi in cui la vocale tematica passa da chiusa ad aperta, mi spiego con un esempio. Le prime vocali di "pregare" e "notare" sono necessariamente chiuse perché atone e non sono in parole composte, ma nella prima persona singolare del presente indicativo diventano [ɛ] ed [ɔ], almeno in italiano standard. Se quindi da una parte usare due lettere diverse per tali forme verbali chiarirebbe in modo univoco le due pronunce, dall'altro farebbe diventare irregolari dei verbi regolari. Non solo ci sarebbe un'alternanza da infinito a indicativo presente, ma anche all'interno della coniugazione del presente indicativo: not-are》nɔt-o》not-jamo. Ci ritroveremmo con un verbo che oggi ha un'unica radice verbale che diventerebbe con due. Insomma far corrispondere ortografia e fonetica complica la coniugazione. Ne vale la pena? Soprattutto considerando la grossa variabilità nei vari italiani regionali? E se dicessimo che le lettere <ɛ> ed <ɔ> senza accento grafico si pronunciano comunque chiuse? Potremmo scrivere nɔtare, nɔto e nɔtjamo pronunciando comunque [no'ta:re], ['nɔ:to] e [no'tja:mo].
    «[S]enza accento grafico», chiaramente, è una svista per «senz’accento [primario]», indipendentemente dalla grafia. L’idea è interessante e può estendersi anche oltre i verbi: es. ⟨bɛllíssimo⟩ /bell-/.
  4. Vd. G. Tognetti, Criteri per la trascrizione di testi medievali latini e italiani, pp. 16–18, § 7: «nella beneventana […] è la t che assume solo in questo speciale legamento una forma verticale, con doppio occhiello a sinistra […] Altrove le due lettere in legamento dovevano essere intese come una sola lettera, […] come è provato o dal trovarsi una (seconda) i dopo di esso (iustitjia) o, in nomi propri, dal raddoppiamento del digramma (Atjtjo = Azzo)».
  5. Per ridurre il numero di segnaccenti, si potrebbe valutare d'avere, come in portoghese, una sottoregola per la terminazione in -u: «sulle parole in -u l'accento si segna quando non cade sull'u finale», quindi per esempio ⟨Peru⟩, ⟨bambu⟩, ⟨caribu⟩, ⟨Geʃu⟩, ⟨ragu⟩, ⟨tabu⟩, ⟨Cefalu⟩... il che aiuterebbe per l'adattamento di termini come ⟨guru⟩ & compagni; ma non so se valga la pena d'introdurre questa complicazione concettuale... la linearità delle regole ha una sua particolare «bellezza logica», diciamo così; e le -u non sono poi molte. Mi piacerebbe comunque sentire il vostro parere anche su questo pensiero. :)
    Un'altra idea per ridurre il numero di segnaccenti —ma questo solo per ischerzo, la riporto come curiosità strutturale che mi è venuta in mente— sarebbe mantenere le stesse regole per l'accentazione suddette ma sistematizzare l'uso dell'acca finale, che segnalerebbe anche l'RF: ⟨cittah⟩, ⟨Peruh⟩, ⟨cosih⟩, ⟨andrah⟩, ⟨Cefaluh⟩, ⟨poteh⟩, ⟨tuh⟩, ⟨treh⟩, ⟨cómeh⟩, ⟨sóprah⟩. :mrgreen:
Avatara utente
G. M.
Interventi: 2984
Iscritto in data: mar, 22 nov 2016 15:54

Re: Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

Intervento di G. M. »

Un'idea bislacca (?) che mi gira in mente da qualche tempo («Caro G. M., ma perché non pensa a cose più utili?...»; eh, vorrei esserne capace... :oops:) è la possibilità di rappresentare l'RF con ⟨·⟩; non secondo l'uso filologico citato qui:
Ferdinand Bardamu ha scritto: dom, 25 set 2022 13:32 Mi chiedo se nessuno abbia mai proposto, per l’espressione grafica del raddoppiamento fonosintattico, l’uso, mutuato dalla filologia, del punto mediano ‹·› seguito dalla consonante iniziale raddoppiata: per esempio «Vado a·ccasa», «Gentile come·ssempre», «Venite da·mme», ecc.
Infarinato ha scritto: dom, 25 set 2022 15:04 Castellani, no di certo, ché lui era contrarissimo a quest’uso anche in filologia [romanza]: riporto il passo appena lo trovo… 😅
Infarinato ha scritto: dom, 25 set 2022 16:28 Non trovo il passo preciso, ma a partire da p. 176 di questo saggio possiamo leggere una critica a tale uso di un allievo del Castellani, Pär Larson, che di passata c’informa anche sull’uso (assai piú sensato) che del punto alto faceva il maestro…
Invece, senza modificare la grafia della parola che subisce il raddoppiamento, e conservando lo spazio fra le parole, si potrebbe mettere il puntino direttamente dopo la parola che genera il raddoppiamento: ⟨a· casa⟩. L'idea è quella che il puntino ci comunichi intuitivamente —ci ricordi— che all'a segue una consonante, la cui natura non è intrinsecamente definita ma sarà concretizzata di volta in volta secondo il contesto: /k/ in ⟨a· casa⟩, /l/ in ⟨a· lui⟩, /d/ in ⟨a· domani⟩... Dal punto di vista del suono rappresentato, il puntino sarebbe una sorta di "carattere polivalente".

Dal punto di vista etimologico, questa soluzione mi sembra graficamente interessante, perché ci legherebbe visivamente al latino mostrando che le consonanti finali non sono scomparse del tutto ma si sono "sublimate": et > ⟨e·⟩, ad > ⟨a·⟩, tres > ⟨tre·⟩, aut > ⟨o·⟩, eccetera.

È un'idea nuova e originale? Assolutamente no... è praticamente quello che facciamo nell'AFI [non ufficiale] coll'asterisco (esempio), o che fa il DOP col suo ⟨+⟩ (esempio); con la differenza che qui si manterrebbe il puntino in ogni occasione, senza concretizzare graficamente il suono (o il non-suono, davanti a /j-/, /w-/, /sC-/...) realizzato.

Le eccezioni sarebbero facilmente rappresentate: ⟨come·⟩, ⟨dove·⟩, ⟨·dio⟩, eccetera.

La frequenza dell'RF, rappresentandolo così, avrebbe effetti importanti sulla grafia complessiva della lingua: opinabilmente gradevoli da una parte (il puntino distanzia, crea un certo spazio vuoto, riducendo la densità della pagina e quindi alleviando l'appesantimento dovuto ai vari segnaccenti e altre innovazioni che sarebbero aggiunti), opinabilmente sgradevoli dall'altra (sarebbe qualcosa di alquanto "inusitato" fra le lingue). In ogni caso, come sempre bisogna
G. M., «Proposta di riforma gráfica dell'italjano», 2021, p. 26 ha scritto:essere coscienti che questi dettagli [...] non sono un’aggiunta gratuita, una complicazione fine a sé stessa: si tratta semplicemente di dare rappresentazione visibile a fenomeni che già esistono e sono parte integrante della lingua, e che noi incontriamo e usiamo regolarmente quando parliamo.
(O che noi nordici dovremmo usare, e quindi è bene farceli vedere scritti... :mrgreen:).

A questo punto sorge un pensiero ulteriore: e le parole polisillabe tronche? Dobbiamo scrivere anche ⟨cosí·⟩, ⟨Perú·⟩, ⟨perché·⟩? Sembra un appesantimento eccessivo... Sembrerebbe sensata una sottoregola o eccezione che preveda che «il raddoppiamento fonosintattico si rappresenta col puntino solo dove la parola non termina già coll'accento grafico». Però l'incoerenza risultante non è molto bella dal punto di vista logico... se il puntino rappresenta un suono, allora l'italiano, che «si scrive come si dice», dovrebbe scriverlo ovunque, se c'è un modo semplice e immediato di farlo.

Esiste la possibilità d'una soluzione che sia insieme lineare e graficamente leggera (anche se è ancora più "inusitata"); l'avevo già prefigurata qui in celia...
G. M. ha scritto: mar, 28 mag 2024 20:27 Un'altra idea per ridurre il numero di segnaccenti —ma questo solo per ischerzo, la riporto come curiosità strutturale che mi è venuta in mente— sarebbe mantenere le stesse regole per l'accentazione suddette ma sistematizzare l'uso dell'acca finale, che segnalerebbe anche l'RF: ⟨cittah⟩, ⟨Peruh⟩, ⟨cosih⟩, ⟨andrah⟩, ⟨Cefaluh⟩, ⟨poteh⟩, ⟨tuh⟩, ⟨treh⟩, ⟨cómeh⟩, ⟨sóprah⟩. :mrgreen:
Ovvero: se il puntino mediano ⟨·⟩ rappresenta una consonante (ipotetica e talvolta assente, sì, ma comunque una consonante), beh, allora non sembra assurdo pesarla nelle regole accentuative; e se manteniamo che «se la parola finisce per consonante, l’accento si segna se non cade sull’ultima vocale», da questo consegue che se mettiamo il puntino il segnaccento in questi casi non è più necessario: ⟨fini·⟩ (come ⟨finir⟩), ⟨pote·⟩ (come ⟨poter⟩), ⟨Peru·⟩, ⟨perche·⟩, eccetera.

Mentre sarà necessario aggiungerlo in alcuni casi eccezionali: ⟨sópra·⟩, ⟨cóme·⟩, ⟨dóve·⟩, eccetera.

Tutto qui, volevo condividere con voi il mio ultimo delirio. :)
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Re: Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

Intervento di G. M. »

Ritorno sul filone dopo appena qualche giorno (sperando di non risultare molesto: i moderatori avvisino, nel caso, e mi fermerò sùbito 😇) per un’altra idea venutami, questa volta circa la distinzione /s/ ~ /z/. Al momento non mi convince molto ma la trovo comunque interessante, per cui la condivido.

Come sappiamo, il valore della ⟨s⟩ come /s/ o /z/ (escludendo quindi i casi che danno /(ʃ)ʃ/) è determinato in molti casi dalle lettere circostanti:
  1. sempre /z/
    1. quando ⟨s⟩ precede ⟨b⟩, ⟨d⟩, ⟨g⟩, ⟨l⟩, ⟨m⟩, ⟨n⟩, ⟨r⟩, ⟨v⟩;
  2. sempre /s/
    1. in principio di parola quando la ⟨s⟩ precede una vocale o semiconsonante qualsiasi;
    2. quando è doppia;
    3. quando precede ⟨c⟩, ⟨f⟩, ⟨p⟩, ⟨q⟩, ⟨t⟩;
    4. quando segue una consonante qualsiasi, a meno che, nei termini non perfettamente conformi alla nostra fonotassi, non si ricada nel caso di /z/ obbligatoria, nel qual caso ha la precedenza la /z/ (es. transgenico /tranzʤɛ̍niko/; quando il termine è ben formato non c’è “conflitto”: trasgenico /traɛ̍niko/).
L’unico caso ambiguo, dove la grafia attuale non dà indicazioni e “bisogna saperlo”, è quello dell’⟨s⟩ che sia insieme:
  • all’interno di parola;
  • scempia;
  • tra vocali, o tra una vocale e una consonante.
L’idea venutami è: rappresentare /s/, solo in questo caso ambiguo, mettendo una dieresi sulla vocale precedente (come da condizioni, c’è sempre una vocale precedente). Se non c’è la dieresi, la ⟨s⟩ si legge /z/.
Esempi: ⟨caso⟩ /-z-/, ⟨cäsa⟩ /-s-/, ⟨francese⟩ /-z-/, ⟨inglëse⟩ /-s-/, ⟨rïsorsa⟩ /-s-s-/, ⟨esístere⟩ /-z-s-/, ⟨pensöso⟩ /-s-s-/.

Lo spunto all’origine di quest’idea, come potete immaginare, è l’osservazione che abbiamo /-s-/ nelle parole composte dove /s-/ apre il secondo elemento, e dato che la dieresi marca una “divisione”, in questi casi è un simbolo in qualche modo intuitivo: ri-salire, ⟨rïsalire⟩; para-sole, ⟨paräsole⟩; e poi da lì per estensione a tutti gli altri casi.

Vediamo i pro e contro di questa proposta rispetto a quella di ⟨s⟩ per /s/ e ⟨ʃ⟩ per /z/ in tutt’i casi. Pro:
  1. è più vicina alla grafia attuale, e più integrazionista rispetto alle lingue sorelle;
  2. non richiede l’introduzione d’una nuova forma di lettera;
  3. rende più naturale pensare a /s/ e /z/ come varianti d'una stessa lettera (come ⟨è⟩, ⟨é⟩, ⟨e⟩, ⟨È⟩, ⟨É⟩, ⟨E⟩, /e/ ed /ɛ/ non sono lettere diverse, ma sempre la e);
  4. ci evita il problema di che forma dare alla ⟨ʃ⟩ maiuscola;
  5. appare relativamente “innocua” rispetto al nostro modo generale odierno di vedere le lingue scritte*, che tollera e ricorda più facilmente i diacritici sulle vocali, mentre li tollera poco sulle consonanti (con le poche eccezioni dalle lingue sorelle, ⟨ñ⟩, ⟨ç⟩, ecc.);
  6. nell’adattare da altre lingue, rende più naturale mantenere le tendenze storiche dell’adattamento di /s/ e /z/, mentre con ⟨s⟩ = /s/ e ⟨ʃ⟩ = /z/ sempre ci sarebbero più difficoltà;
  7. ([punto più o meno irrilevante, ma lo scrivo per completezza formale] nella remota ipotesi che valutassimo di rappresentare sistematicamente i fenomeni di sandi**, se consideriamo «italiani» termini come gas, ananas, tennis, ecc., ci evita la “scocciatura” di dover cambiare la forma della s in incontri come tennis da tavolo /-z d-/, gas metano /-z m-/, ecc. [ma io li tratterei come forestierismi, quindi corsivo sistematico e nessun cambiamento alla grafia; cfr. qui]).
Contro:
  1. nel complesso è una regola un po' involuta, complicata, mentre l’altra proposta è semplicissima e lineare;
  2. potrebbero (?) esserci conflitti col significato tradizionale della dieresi;
  3. se conserviamo i segnaccenti per rappresentare il timbro come oggi, spesso avremo un doppio diacritico, che è un po’ pesante***, per la presenza frequente di ⟨cö̀sa⟩, mentre “siamo fortunati" per i frequenti -oso e -ese, con /s/ ma vocale chiusa, e quindi ⟨-öso⟩, ⟨-ëse⟩ con diacritico unico (mentre, se scegliamo di usare il segnaccento per indicare solo la posizione —usando ⟨ɛ⟩ e ⟨ɔ⟩ per i timbri, o simili—, avremo comunque il doppio diacritico, ma sarà molto più raro: ⟨rḯsero⟩, ⟨unḯsono⟩, ⟨ä́sino⟩/⟨ä̀sino⟩, ⟨prë́sine⟩, ecc.);
  4. nel complesso, forse ⟨ʃ⟩ dà alla lingua un aspetto esteticamente migliore.
Naturalmente —come avevo pensato già tempo fa— si può pensare di distinguere i casi ambigui, in modo più lineare e immediato, usando lo stesso sistema ma mettendo la dieresi direttamente sulla ⟨s⟩: ⟨cas̈a⟩, ⟨ingles̈e⟩,⟨ris̈orsa⟩, eccetera. Si perde però in tal caso il pro numero 5, non trascurabile, e s’indeboliscono i pro 1 e (lievemente) 6.

[*Influenzato spesso dalle traslitterazioni all'inglese dell'arabo, del russo e altre lingue slave, dall'Hepburn per il giapponese, dal pīnyīn per il cinese; eccetera.]
**Da un lato elidiamo e tronchiamo normalmente le parole, ma dall'altro non scriviamo um bacio, Gram Bretagna, eccetera.
***A qualcuno potrebbe piacere perché ricorda il greco. 🏛️📜]
Ultima modifica di G. M. in data mer, 11 dic 2024 11:24, modificato 1 volta in totale.
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Re: Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

Intervento di Millermann »

G. M. ha scritto: mar, 10 dic 2024 21:27L’idea venutami è: rappresentare /s/, solo in questo caso ambiguo, mettendo una dieresi sulla vocale precedente (come da condizioni, c’è sempre una vocale precedente). Se non c’è la dieresi, la ⟨s⟩ si legge /z/.
Controproposta: idea simmetrica, a cui sono certo che avrà già pensato: rappresentare /z/, ma sempre e soltanto in questo caso ambiguo, con la s lunga. Di converso, la ⟨s⟩ nei casi ambigui si legge /s/.
Esempi: ⟨caʃo⟩ /-z-/, ⟨casa⟩ /-s-/, ⟨franceʃe⟩ /-z-/, ⟨inglese⟩ /-s-/, ⟨risorsa⟩ /-s-s-/, ⟨eʃístere⟩ /-z-s-/, ⟨pensoso⟩ /-s-s-/.

Sarà forse semplicistico, ma io lo trovo immediato da capire, a differenza della versione con la dieresi sulla vocale precedente, che mi sembra poco intuitiva, e presenta, fra i «contro» da lei osservati, quello che per me è inaccettabile:
G. M. ha scritto: mar, 10 dic 2024 21:27[P]otrebbero (?) esserci conflitti col significato tradizionale della dieresi[.]
in particolare perché renderebbe impossibile introdurre caratteri come ⟨ë⟩ per indicare la vocale scevà (possibilità che vorrei lasciare sempre aperta) ;)

Non mi sembra necessario trattare in modo particolare i casi della ⟨s⟩ che preceda ⟨b⟩, ⟨d⟩, ⟨g⟩, ⟨l⟩, ⟨m⟩, ⟨r⟩, ⟨v⟩, che si leggerà (spontaneamente) /z/.

Per quanto riguarda la forma maiuscola di ʃ (da usare soltanto nei titoli in maiuscolo), direi che la cosa piú logica sia di replicare lo stesso simbolo, ma senza che scenda sotto la linea di base, e tale che abbia la stessa altezza delle altre lettere maiuscole. :)
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Re: Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

Intervento di G. M. »

Millermann ha scritto: mar, 10 dic 2024 22:40Controproposta: idea simmetrica, a cui sono certo che avrà già pensato: rappresentare /z/, ma sempre e soltanto in questo caso ambiguo, con la s lunga. Di converso, la ⟨s⟩ nei casi ambigui si legge /s/.
Esempi: ⟨caʃo⟩ /-z-/, ⟨casa⟩ /-s-/, ⟨franceʃe⟩ /-z-/, ⟨inglese⟩ /-s-/, ⟨risorsa⟩ /-s-s-/, ⟨eʃístere⟩ /-z-s-/, ⟨pensoso⟩ /-s-s-/.

Sarà forse semplicistico, ma io lo trovo immediato da capire […]
Sì, ci avevo già pensato all’epoca della pubblicazione della proposta. In effetti, al riguardo nel libro discutevo solo due soluzioni possibili (dal punto di vista del funzionamento; la scelta dei simboli era discussa a parte): quella da lei appena definita (distinzione grafica con un simbolo specifico per /z/, solo nei casi ambigui), e quella che poi approvavo (distinzione grafica con simboli specifici per /s/ e /z/ in tutti i casi, biunivoca).

Per comodità, chiamiamo la sua «soluzione 1» e quella totale «soluzione 2» (com’erano chiamate nel libro, così faccio prima citandolo direttamente :mrgreen:). In sintesi, le motivazioni che là mi spingevano a preferire la soluzione 2 erano:
  1. Le regole che determinano la pronuncia della A⟨s⟩, per quanto applicate correttamente in modo spontaneo da gran parte degl’italiani, non sono semplicissime: sono decisamente piú complesse di quelle per ⟨c⟩ e ⟨g⟩, e possono dare dei dubbi anche a persone di buona cultura
    come i tanti settentrionali (fra cui un tempo il sottoscritto […che spesso sbaglia ancora, ma almeno è consapevole di sbagliare :lol:]) i quali, credendole pronunce corrette, dicono normalmente /tranzV-/ anziché /transV-/.
    Nel momento in cui andiamo ad aggiungere un nuovo simbolo diacritico, è sensato che questo ci aiuti a semplificare le cose; e, usandolo in tutti i casi, troviamo le regole di pronuncia suddette [quelle dell's, davanti, dietro, doppia, scempia, all'inizio, in mezzo...] anche nel piano grafico oltre che nel piano parlato, rendendone piú facile la comprensione e il rispetto da parte di tutti. Una piccola “complicazione” grafica, cosí, è pareggiata da una semplificazione concettuale.
  2. La variazione grafica aggiuntiva della soluzione 2 rispetto alla soluzione 1 è molto piccola: per dare un’idea, in tutto questo libro comporta meno di cento ⟨ʃ⟩ in piú […]
    Ovvero,
    [m]eno di 100 su piú di 140.000 caratteri (note incluse, spazi esclusi): caratteri contati a partire dalla fine di questo § 2.2, cioè da quando iniziamo a usare ⟨ʃ⟩ nel corpo del testo.
    L’ulteriore allontanamento (della soluzione 2 rispetto alla 1) dalla grafia attuale è quindi lieve, mentre relativamente alla semplicità delle regole dei nuovi elementi introdotti c’è un progresso notevole:
    [i] pro paiono superare ampiamente i contro.
  3. In generale, rispetto alla soluzione 1 si crea una maggiore corrispondenza fra lettere e suoni, acconcia allo spirito dell’italiano, e piú banalmente facile per noi e per gli stranieri che studiano la nostra lingua (già ricca di regole complicate).
Queste le ragioni al tempo; oggi non ne sono più così sicuro… Sono pieno di dubbi dappertutto.

Un pensiero ulteriore è che se ci fosse ⟨ʃ⟩ apposita per /z/ solo in qualche caso, sarebbe forse “inevitabile” che l’uso l’estendesse poi a tutti i casi in modo lineare, come oggi distinguiamo sistematicamente ⟨v⟩ per /v/ e ⟨u⟩ per /u/ e /w/, un tempo confuse nello scritto, o distinte graficamente ma secondo regole diverse dalle attuali; e allora sembra più sensato introdurre la nuova forma direttamente in tutti i casi, per evitare una faticosa fase di transizione.
Ma, d’altro canto, per secoli abbiamo avuto ⟨j⟩ per /j/ usata regolarmente in casi precisi… eppure l’uso non ha esteso l’impiego di ⟨j⟩ a tutti i casi di /j/, anzi l’ha fatta “morire”*. C'è stata un'estensione, ma in direzione contraria (⟨i⟩ vale /j/ in alcuni casi > scriviamo ⟨i⟩ per /j/ ovunque). Quindi le cose non sono ben prevedibili.
Millermann ha scritto: mar, 10 dic 2024 22:40[L]a versione con la dieresi sulla vocale precedente […] presenta, fra i «contro» da lei osservati, quello che per me è inaccettabile:
G. M. ha scritto: mar, 10 dic 2024 21:27[P]otrebbero (?) esserci conflitti col significato tradizionale della dieresi[.]
in particolare perché renderebbe impossibile introdurre caratteri come ⟨ë⟩ per indicare la vocale scevà (possibilità che vorrei lasciare sempre aperta) ;)
M’incuriosisce e diverte sempre vedere la diversità dei punti di vista, e l’arricchimento che discende dal confronto. :) Ora, conoscendola un minimo, io presumo che lei non sia un gheniano, bensì che lo dica per ragioni di rappresentazione dei dialetti. Quella che per lei è la ragione fondamentale, un discrimine assoluto, a me sembra invece cosa debolissima… banalmente perché lo scevà non appartiene all’italiano, quindi quel tipo di conflitto non potrebbe presentarsi in italiano; mentre nei dialetti (se c’è lo scevà ed è rappresentato con ⟨ë⟩), se vi fosse possibilità di conflitto, si ricorrerebbe (se non vi si ricorre già) a soluzioni diverse per distinguere /s/ e /z/ (per esempio, nel dialetto della mia città si usa ⟨s⟩ per /s/ e ⟨z⟩ per /z/ ovunque).
Millermann ha scritto: mar, 10 dic 2024 22:40 Non mi sembra necessario trattare in modo particolare i casi della ⟨s⟩ che preceda ⟨b⟩, ⟨d⟩, ⟨g⟩, ⟨l⟩, ⟨m⟩, [⟨n⟩,] ⟨r⟩, ⟨v⟩, che si leggerà (spontaneamente) /z/.
(Avevo dimenticato la ⟨n⟩).

Un altro mio dubbio fra i tanti è: se s’iniziasse a usare davvero sistematicamente ⟨ʃ⟩ solo nei casi ambigui, la distinzione fra i due suoni rimarrebbe davvero spontanea in tutti gli altri casi in cui c’è solo ⟨s⟩? Considerando tutto ciò che abbiamo detto sul fatto che oggi la lingua si apprende più «cogli occhi» e meno «colle orecchie», eccetera (cfr. questo).
Magari sono sciocchezze, ma io me lo chiedo; capire e prevedere la psicologia linguistica d’un popolo è difficile, o almeno lo è per me…
Millermann ha scritto: mar, 10 dic 2024 22:40 Per quanto riguarda la forma maiuscola di ʃ (da usare soltanto nei titoli in maiuscolo), direi che la cosa piú logica sia di replicare lo stesso simbolo, ma senza che scenda sotto la linea di base, e tale che abbia la stessa altezza delle altre lettere maiuscole. :)
Non mi dispiace come idea… Ad alcuni ricorderà un po’ certe s del decò o del fascismo, secondo quello che ci viene spontaneo vedere, alla «Rorschach». :P Comunque una forma leggera ed elegante. Simile a quella qui sotto nella seconda e quarta riga:

Immagine

[*Con dispiacere di Camilli, che se ne lamentava e l’avrebbe estesa ai casi d’i semiconsonantica e diacritica più o meno come proposi io (indipendentemente, prima di leggerlo): A. Camilli, Pronuncia e grafia dell’italiano, 3ª edizione riveduta a cura di P. Fiorelli, Firenze: «Sansoni», 1965, pp. 170–171.]
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Re: Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

Intervento di jorvam »

Più volte, proprio come Giulio ho riscontrato "disagi" simili (e sicuramente anche altri parlanti dell'italiano).

Probabilmente la scelta più accettabile sarebbe quella dell'inserimento di nuove lettere dell'alfabeto per una leggibilità maggiore, oltre che per la sua eleganza estetica, e una chiara distinzione tra suoni come per esempio /i/ e /j/ o /ts/ e /dz/ (nonostante sia tentato a pensare però, che la E aperta "ɛ" possa essere simile ad una E maiuscola corsiva).

Tuttavia, la parte più avventurosa ma non impossibile ritengo che sia dal punto di vista informatico perché, portando la riforma ad una vera e propria rivoluzione del sistema di scrittura dovranno subire aggiornamenti i numerosi software, banche dati (processi che potrebbero essere anche automatizzati da script) e sistemi operativi (anche se esclusivamente quelli correnti), ma periferiche basilari come la tastiera fisica dei computieri dovrebbero essere totalmente rimpiazzate e questo richiederebbe la loro riprogettazione oltre che dei costi logistici.
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Re: Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

Intervento di Carnby »

Per quanto riguarda la s e la z sonore ci sono varie possibilità:
  1. l’uso storico di ç per /t͡s/ e x per /z/ (oggi poco realistico: çucchero, na(ç)çione, roxa, francexe...);
  2. la prima versione di Ascoli con ś e ź per /z/ e /dz/;
  3. la soluzione di Goidanich, con ſ e ȥ (sebbene in corsivo appaiano simili o uguali a /ʃ/ e /ʒ/ dell’alfabeto fonetico nella maggior parte dei tipi, i valori originali in tondo erano differenti, ovvero «ſ» e «ȥ»)
  4. la soluzione di Devoto con e ż per gli stessi fonemi, probabilmente la più realistica e meno fantalinguistica.
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Re: Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

Intervento di Infarinato »

  1. La soluzione di Castellani con ş e .
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Re: Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

Intervento di Carnby »

Infarinato ha scritto: ven, 13 dic 2024 23:02
  1. La soluzione di Castellani con ş e .
L’avevo dimenticata, ma non mi sembra un miglioramento significativo rispetto a ś e ź oppure a e ż.
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Re: Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

Intervento di G. M. »

jorvam ha scritto: ven, 13 dic 2024 20:07 Tuttavia, la parte più avventurosa ma non impossibile ritengo che sia dal punto di vista informatico perché, portando la riforma ad una vera e propria rivoluzione del sistema di scrittura dovranno subire aggiornamenti i numerosi software, banche dati (processi che potrebbero essere anche automatizzati da script) e sistemi operativi (anche se esclusivamente quelli correnti), ma periferiche basilari come la tastiera fisica dei computieri dovrebbero essere totalmente rimpiazzate e questo richiederebbe la loro riprogettazione oltre che dei costi logistici.
Tutto vero, ma... :wink: allo stesso tempo proprio queste tecnologie informatiche, mai avute prima, rendono immensamente più facile (dal punto di vista pratico, cioè ipotizzando che ci sia la volontà), rispetto ai secoli precedenti, la realizzazione d'una riforma grafica del genere (e riforme del genere, e anche molto più "pesanti", si sono fatte tante volte nella storia —e si fanno anche oggi—); e quindi, per le mutate circostanze pratiche, è interessante riproporne la discussione oggi.
Mi autocito di nuovo direttamente dal libretto:
3.16 L’ajuto tecnolɔ́gico
  • Mᴀ́ssɪᴍᴏ. – […] D’altra parte ɛ́ vero che si potrɛ́bbero segnare in ufficjo regolarmente le vocali apɛrte e chjuse.
    Bʀᴜɴᴏ. – Cjoɛ́ glj accɛnti fɔ́nici.
    Mᴀ́ssɪᴍᴏ. – E non credi che si pɔ́ssano pjan pjano introdurre anche nell’ortografia italjana corrɛnte?
    Bʀᴜɴᴏ. – Nei libri e nei gjornali? Non sarɛbbe impresa da pɔco.
    Gᴇɴɴᴀʀᴏ. – Sarɛbbe un’impresa assurda. Non vi rendete conto che il novantacinqʋe per cɛnto degl’italjani, insegnanti non escluʃi, si troverɛ́bbero di punto in bjanco analfabɛti?
    Mᴀ́ssɪᴍᴏ. – Come, analfabɛti?
    Gᴇɴɴᴀʀᴏ. – Se non vʋɔi dire analfabɛti, dicjamo colpiti da «atonia». Un lombardo abituato a pronunzjare bene e strɛtto e símili sarɛbbe obbligato a gʋardare nel vocabolarjo djɛci vɔlte per scrívere una página.
    Aʟᴅᴏ. – Eppure per il franceʃe glj accɛnti ti fanno sapere súbito se si deve pronunzjare e o ɛ. […]76
Nel 1945 usciva, a firma di Bruno Migljorini, un volumetto intitolato Pronunzja fjorentina o pronunzja romana?, nel qʋale, fralle altre cɔse, si ragjonava dell’opportunitá di una riforma gráfica dirɛtta a chjarire la pronuncja della nɔstra lingʋa. Come abbjamo visto nell’estratto qʋi sopra, il problɛma pju grande ɛra individuato prɛsto, ed ɛra di natura eminɛntemente prática: non si pʋɔ facilmente introdurre una riforma di qʋesto gɛ́nere nella situazjone in cui ampje parti del paeʃe —anche di cultura mɛdjo-alta— non sarɛ́bbero in grado di scríverla agilmente in mɔdo corrɛtto. Per l’ɛ́poca ɛra uno scɔgljo insuperábile.
    Ɔggi, qʋaʃi ottant’anni dopo, apparɛntemente le cɔse non sono cambjate. Un lombardo, con carta e penna davanti, si troverɛbbe ancora «obbligato a gʋardare nel vocabolarjo djɛci vɔlte per scrívere una página». C’ɛ́ perɔ́ una differɛnza fondamentale rispɛtto ad allora: ossia che praticamente tutto cjɔ che scrivjamo ɔggi (tutto cjɔ che ɛ́ dirɛtto a un “púbblico”, pju o meno ampjo) non vjɛne scritto a mano né con una mácchina per scrívere, bensí con la tastjɛra d’un computjɛre, o sullo schermo táttile d’un telefonino, o con un qʋalche strumento análogo. E, su tutti qʋesti strumenti, abbjamo i correttori ortográfici automátici.
    Come gja ɔggi, se scrivo ⟨eternita⟩, ⟨finirebero⟩, ⟨arrivero⟩, il correttore me li cambja all’istante in A⟨eternità⟩, A⟨finirebbero⟩ e A⟨arriverò⟩, cosí basterɛbbe approntarlo per implementare la riforma gráfica, in mɔdo che, se scrivo ⟨umido⟩, ⟨usare⟩ o ⟨atomo⟩, me li cambi automaticamente in N⟨úmido⟩, N⟨uʃare⟩ e N⟨átomo⟩.
    Dove sono possíbili pju tɛ́rmini (A⟨leggere⟩: N⟨lɛ́ggere⟩ o N⟨leggɛre⟩?), sará sufficjɛnte che compaja una banale tendina (o un análogo accorgimento gráfico) con i vari tɛ́rmini tra cui scégljere, similmente a qʋanto fanno gja ɔggi i correttori (o “suggeritori”) ortográfici dei telɛ́foni cellulari.
    Con un programmino símile (veramente banalíssimo, dal punto di vista informático), potremmo consentire a tutti di scrívere nella nʋɔva nɔrma da súbito, sɛnza l’ɔ́bbligo di avere tastjɛre nʋɔve o di consultare il dizjonarjo per ogni dubbjo.
    Nel ’45 per l’Italja una riforma símile era un sogno utɔ́pico: ɔggi ɛ́ una possibilitá reale, a portata di mano, che abbjamo tutti gli strumenti per realiʒʒare col mínimo sfɔrzo.
—————
Carnby ha scritto: ven, 13 dic 2024 22:25 Per quanto riguarda la s e la z sonore ci sono varie possibilità:
  1. l’uso storico di ç per /t͡s/ e x per /z/ (oggi poco realistico: çucchero, na(ç)çione, roxa, francexe...) [...]
La ⟨x⟩ per /z/ non mi convince, non mi ha mai convinto... Non so bene perché. Anche dove abbiamo /z/ da un'x latina... ha qualcosa di poco italiano.

Trovo invece interessante ⟨ç⟩ per /ʦ/ e da tempo mi gira in testa fra le tante possibilità (e pensavo d'averne parlato nel primo intervento del filone, e invece mi sembra di no...), perché —cosa rara e pregevole— sarebbe una proposta sia «tradizionalista», recuperando un elemento antico usato con questa funzione specifica, sia «moderna» perché molto integrazionista-internazionalista: ci avvicinerebbe alle altre principali lingue romanze occidentali e anche all'inglese (e, se interessa, anche alle lingue slave dall'altro lato, che hanno spesso ⟨c⟩ per /ʦ/); un esempio fra mille: sp.-encia, port.-ência, fr.-ence, ingl.-ence, it.N-ènça, -ɛnça (+ eventuale /j/). Certo, all'inizio sarebbe un po' strana perché l'assoceremmo più a /ʧ/ che a /ʦ/; ma mi sembra un problema minore, ci abitueremmo presto.
Tuttavia...
  1. Se si sceglie ⟨ç⟩ per /ʦ/ diventa consigliabile non avere ⟨j⟩ per /j/ ovunque, per evitare una sequenza ⟨çj⟩, pesante, che sarebbe assai frequente (...in ottica più integrazionista, una riduzione delle ⟨j⟩ non sarebbe un male);
  2. se si valuta d'abbandonare la ⟨z⟩ per /ʦ/, allora, pur con tutto l'amore che ho per (la maggioranza del)le lingue sorelle, in tal caso mi sembrerebbe forse più sensato riorientarci verso il latino, cioè verso la ⟨t⟩, e quindi in qualche modo verso il rumeno (che ha ⟨ț⟩ per /ʦ/): ⟨ț⟩ (ti con virgola) ⟨ţ⟩ (ti con cediglia), la «ti lunga» da me disegnata... (e per le ti con allungamenti inferiori, come per ⟨ç⟩, sembra esteticamente pesante il mantenimento di ⟨j⟩ ovunque). ⟨tz⟩, con vecchio e nuovo insieme, resta forse una soluzione pragmatica da valutare.
Carnby ha scritto: ven, 13 dic 2024 23:07
Infarinato ha scritto: ven, 13 dic 2024 23:02
  1. La soluzione di Castellani con ş e .
L’avevo dimenticata, ma non mi sembra un miglioramento significativo rispetto a ś e ź oppure a e ż.
Dato che la riforma probabilmente incrementerà molto il numero dei segnaccenti, che sono posti sopra le lettere, dal punto di vista estetico dei diacritici posti sotto le lettere anziché sopra per gli altri elementi potrebbero alleviare la sensazione di sovraffollamento.
brg
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Iscritto in data: mer, 12 gen 2022 20:53

Re: Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

Intervento di brg »

Un progetto di riforma ortografica non può che partire da un'esigenza di praticità, altrimenti è solo uno sterile esercizio di stile.

Questa praticità, scopo imprescindibile di qualunque proposta seria, deve certamente tenere di conto delle reali ambiguità dell'ortografia italiana, della semplicità di uso e d'adozione, quindi anche delle soluzioni storiche comunemente adottate e di quelle già messe a disposizione dagli strumenti di scrittura.

Pertanto, mi pare, che, per quel che riguarda le vocali e l'accentazione delle parole, la soluzione più semplice e pratica sia quella di seguire la comune pratica di indicare l'accento, grave o acuto a seconda dei casi. Una soluzione del genere è nota ed accessibile a tutti, che già conoscono "pèsca" e "pésca" o "príncipi" e "princípi" (anche se i più raffinati preferiscono "principî").

Per la qualità della "s" preferisco la soluzione del Devoto e la userei solamente quando la "s" è ambigua, che è una minoranza dei caṡi. Anche l'accento lo lascerei mettere solo quando è ambiguo o inaspettato.

Per la "i" farei come Pirandello, che scriveva "bujo".

Per il resto non saprei, ma non so neanche quanto effettivo bisogno ce ne sia.

D'altra parte le parole ibride (es. "nietzschiano", "newyorchese"), un po' italiane, un po' straniere, complicano enormemente qualsiasi proposta, specialmente le più rigide.
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G. M.
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Re: Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

Intervento di G. M. »

brg ha scritto: dom, 15 dic 2024 21:13 D'altra parte le parole ibride (es. "nietzschiano", "newyorchese"), un po' italiane, un po' straniere, complicano enormemente qualsiasi proposta, specialmente le più rigide.
Sono perplesso: a me sembrano un elemento tutto sommato trascurabile, o comunque molto minore.
  1. Sono termini generalmente rari e perlopiù marginali;
  2. sono ibridi già per le norme dell'ortografia attuale, per cui non vedo che cosa cambierebbe fra ora e dopo: anche se si facesse una riforma che risolve tutte le ambiguità della grafia attuale dell'italiano, chi ha un certo gusto continuerà a usare le grafie ibride; gli altri scriveranno nicciano, nuovaiorchese e simili, comunque ortografati;
  3. se proprio non si vuole o non si può rinunciare, in molti casi si potrà risolvere con la soluzione esteticamente sgradevole ma "logica" del corsivo parziale, ⟨nietzschiano⟩, ⟨newyorkese⟩ (in questo caso, meglio mantenere la k); in altri la scansione fra pezzo e pezzo non sarà tanto netta, ma vista la rarità e l'intrinseca "limitaneità" di tali casi non mi pare che sia un grande problema per una potenziale riforma.
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Re: Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

Intervento di Graffiacane »

brg ha scritto: dom, 15 dic 2024 21:13 Per la "i" farei come Pirandello, che scriveva "bujo".
Soluzione condivisibile ma ostacolata dal fatto che il parlante medio, a quanto mi consta, non è in grado di distinguere una i vocalica da una i consonantica.
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G. M.
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Re: Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

Intervento di G. M. »

G. M. ha scritto: mar, 10 dic 2024 21:27 L’idea venutami è: rappresentare /s/, solo in questo caso ambiguo, mettendo una dieresi sulla vocale precedente (come da condizioni, c’è sempre una vocale precedente). Se non c’è la dieresi, la ⟨s⟩ si legge /z/.
Esempi: ⟨caso⟩ /-z-/, ⟨cäsa⟩ /-s-/, ⟨francese⟩ /-z-/, ⟨inglëse⟩ /-s-/, ⟨rïsorsa⟩ /-s-s-/, ⟨esístere⟩ /-z-s-/, ⟨pensöso⟩ /-s-s-/.

Lo spunto all’origine di quest’idea, come potete immaginare, è l’osservazione che abbiamo /-s-/ nelle parole composte dove /s-/ apre il secondo elemento, e dato che la dieresi marca una “divisione”, in questi casi è un simbolo in qualche modo intuitivo: ri-salire, ⟨rïsalire⟩; para-sole, ⟨paräsole⟩; e poi da lì per estensione a tutti gli altri casi.
Un'altra possibilità grafica giustificabile etimologicamente potrebbe essere l'uso d'un titolo/tilde, ricordando che questa /-s-/ corrisponde in qualche caso a un gruppo «nasale + s» latino, dove la nasale è caduta: -ensis > ⟨-ẽse⟩ degli etnici, mensis > ⟨mẽse⟩, (ec)cum sic > ⟨cõsí⟩, ⟨cõsi·⟩.

Dal punto di vista sincronico-intuitivo, invece, il segno (anche posto direttamente sull's, ⟨s̃⟩: ⟨-es̃e⟩, ⟨mes̃e⟩, ⟨cos̃í⟩, ⟨cos̃i·⟩), ricordando graficamente un'⟨s⟩, potrebbe farci pensare a una seconda s "sublimata", che però imponga il valore /s/: ⟨mẽse⟩/⟨mes̃e⟩ /me̍se/ come ⟨messe⟩ /me̍sse/.
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Re: Proposta di riforma ortografica (di G. M.): pareri e consigli

Intervento di Millermann »

Noto con piacere che questa discussione ha iniziato ad animarsi, perciò mi permetto di aggiungere qualche considerazione di carattere piú generale s'un argomento che m'è sempre stato a cuore.

In linea di principio mi trovo d'accordo con la posizione di Brg, ma allo stesso tempo non mi sento d'appoggiare esclusivamente una riforma "ridotta", anche se questo la renderebbe forse piú accettabile.
Come in ogni proposta innovativa, occorre trovare il punto di equilibrio tra il «minimo indispensabile» e il progetto grandioso e, possibilmente, perfetto.

Una proposta di riforma ortografica non è mai semplice da accettare, neanche quando comporta solo piccole modifiche; la sua maggiore giustificazione potrebbe essere la semplificazione, qualora ci fossero regole complesse o che rallentassero inutilmente la scorrevolezza nello scrivere.
In questo caso, invece, mi sembra sia esattamente l'opposto: si parla d'introdurre accenti, diacritici anche compositi, lettere modificate graficamente; a questo punto, la ragione non può essere una banale riorganizzazione e razionalizzazione della grafia per adeguarla alla pronuncia modello: dev'essere qualcosa di piú importante. :)
Fuori tema
Mi verrebbe da paragonare, come difficoltà, la riforma ortografica alla riforma del calendario: probabilmente conoscerete la proposta del calendario mondiale (o universale) fatta nel 1930, e mai realizzata nonostante il sostegno della Società delle Nazioni durato venticinque anni.
La riforma proposta, pur semplificando e razionalizzando il comune calendario gregoriano, non introduceva vantaggi sostanziali rispetto a questo, e i (pochi) svantaggi risultavano sufficienti a farla rigettare.

Per riformare il calendario sarebbe forse preferibile una proposta totalmente innovativa (che introducesse –che so– il giorno 0 (zero) o i mesi di 28 giorni), quindi tale da tagliare definitivamente i ponti col vecchio sistema. :?

In entrambi i casi ci sarebbe un "prima" e un "dopo", tanto piú ostici quanto piú simili tra loro: mi chiedo, ad esempio, quanti accetterebbero volentieri di cambiare la propria data di nascita o quella dei propri figli. Un individuo nato –diciamo– il 31 marzo, secondo me troverebbe ancora piú inaccettabile "trasferire" il suo compleanno al 30 marzo o al primo d'aprile che non, ad esempio, a un ipotetico giorno 5 di un mese di 28 giorni chiamato «delta» e che partisse da 0, completamente slegato, quindi, dalla data precedente. :P
E anche con la riforma ortografica sarebbe piú o meno cosí: occorre sempre considerare il prima e il dopo, e il fatto che i libri esistenti continuerebbero a esistere, e per poterli leggere servirebbe continuare a conoscere (e quindi a studiare) le vecchie regole ortografiche, inappariscenti o rivoluzionarie che siano quelle nuove.

Ciò detto, una riforma piú profonda potrebbe essere giustificata in diverse maniere: ad esempio (una cosa che mi piace immaginare) allo scopo di permettere di scrivere in modo coerente e preciso non solo l'italiano normale, ma anche le lingue regionali parlate dagli italiani. Oppure, altra cosa non banale (ma qui immagino un po' di perplessità da parte di qualcuno) per introdurre un sistema aperto alle variazioni e alle evoluzioni che la lingua, giocoforza, subirà nel corso del tempo, e che altrimenti sarebbero gestite in modo raffazzonato, aumentando le forme irregolari e allontanando sempre piú la grafia dalla pronuncia.

Tornando alle proposte concrete, mi piace l'idea della tilde posta sull's, ⟨s̃⟩, che suggerisca una seconda s, dando luogo alla pronuncia /s/, ma se mi pongo da un punto di vista neutrale, mi accorgo che ciò presuppone che la pronuncia spontanea di ⟨s⟩ intervocalica sia dolce, e tale assunzione:
1) non è vera per un italiano meridionale, la cui pronuncia spontanea è quella aspra;
2) non è sempre valida nei testi scritti secondo la vecchia ortografia, con la possibilità di creare confusione.

Pertanto, nei casi ambigui come questo, affiancherei al simbolo ⟨s̃⟩ il suo correlativo ⟨ṡ⟩ (o altra scelta acconcia), in modo da rendere evidente per tutti la corretta pronuncia (⟨ingles̃e⟩~⟨franceṡe⟩), e lasciare comunque nel dubbio quelle ⟨s⟩ che, per un motivo o per l'altro, siano prive di diacritici. ;)
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