Minuzie fonetiche del fiorentino al tempo di Dante

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angiolierifan1260
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Minuzie fonetiche del fiorentino al tempo di Dante

Intervento di angiolierifan1260 »

Essendo un amante della poesia antica, cerco sempre di avvicinarmi il più possibile alla pronuncia effettiva che avrebbe usato un dato autore. Ciò è ormai abbastanza facile e alquanto diffuso almeno tra i cultori per il latino e per il greco (chi non ne ha mai sentito parlare, vada cercando il nome di Luke Ranieri in interrete), delle cui pronunzie antiche siamo certi con un grado di sicurezza molto buono. Anche sull'accento di Shakespeare si sono fatte ipotesi abbastanza solide. Dunque mi è venuto il ghiribizzo di saperne quanto più possibile sulla pronuncia al tempo delle tre Corone.

Dalle mie ricerche "pro virili parte" ho ricavato fatti riportati da vari studiosi e relativamente pacifici a quanto pare, principalmente:
a) riguardo le alveolari, la probabile pronuncia già al tempo di /'prEZo, reli'Zoso/ e riguardo le sorde il contrasto poi annullato tra /'baSo/ e /'patSe/, che è fatto noto a chiunque s'interessi di linguistica italiana.
b) il contrasto fino al Rinascimento tra /ts/ singolo e geminato in grazia contro azzione, indotto principalmente dai latinismi (sarei in dubbio su "strazio" che non è proprio un termine classico, ma rima con parole dotte ed ha comunque una natura opaca, dunque mi accontenterò in assenza d'altre prove di ['stratsio]). Tra l'altro Claudio Tolomei nel Polito discopre anche che "Quel Z ch'è in orzo, et oleza, è doppiamente posto; e 'l suo puro e semplice si palesa in zephiro, zoroastro, zizania"; anche da frasi del Salviati deduco quindi l'affermazione più generale che /ts/ e /dz/ non erano ancora autogeminanti, e quindi il sonetto del Petrarca principiava: ['dzEfiro 'torna], certo più leggiadro di come oggi direbbe chi usa la dizione (o quasi chiunque venga dall'Italia centrale) ['dz:Efiro 'torna].
c) fino al XIX secolo e con tutta probabilità già al tempo di Dante era in vigore la distinzione riportata dal Salviati con somma chiarezza tra /'veggi/ "ch'io veda" e /'veggji/ (o /'veɟɟi/ come lo si voglia analizzare) "tu vegli", e tra /'sekki/ "senz'acqua" e /'sekkji/ (/'secci/) "recipienti", a cui comunque son ben uso perché nel mio stesso dialetto ternano è vitale un contrasto tra sicchi e sicchji.
d) fino al XVIII secolo le congiunzioni e, o, né ebbero pronuncia di semiaperte, non di semichiuse, insomma /E O nE/, e ciò con assoluta sicurezza in base alle attestazioni dei grammatici e concordante l'etimologia.
e) il dittongo /jE/ dopo alveolari, arrivato graficamente fino a noi, era usato davvero fino al XVIII secolo (e dunque cielo e gielo saran pronunciati /'tSjElo, 'dZjElo/.
f) che sulla gorgia mancano dati in tempi medievali, e che se qualche aspirazione fosse stata presente in tempi danteschi probabilmente avrebbe riguardato solo le velari o addirittura solo /k/.

Se qualcosa fin qui l'ho compreso male chi mi risponda ed abbia le conoscenze sarebbe davvero gentile a farmelo notare. Ma passiamo al motivo per cui scrivo qui; chiedo scusa in anticipo se d'ora in poi opererò di fatto uno spreco di caratteri stringendo quelli che per la filologia e la linguistica sono nodi gordiani, per giunta di importanza minima, ma tanto valeva tentare. I miei dubbi riguardan principalmente fatti minori relative ai punti b, c, ed e, ovvero:

1) Se /ts dz/ non erano autogeminanti, e /ts/ dunque poteva avere una variante singola intervocalica nei latinismi ben distinta dalla pronuncia /tsts/ nelle parole volgari, parole come Nazaret, Lazaro o amazone potevano avere una pronuncia con [dz] singolo, almeno nella lingua dei colti? Che comunque sarebbero stati i soli ad avere molta opportunità di usarle, data la loro natura greca o ebraica, presumo. Io a questo punto sarei per un sì, se diamo per buona l'idea che la pronuncia ['gratsia] del volgare - che a quanto pare era ben formata anche nella lingua del volgo se mancano confusioni con /tsts/ nelle carte private del tempo di Dante - è fondamentalmente lo specchio della pronuncia ecclesiastica del tempo. Di fatto, la pronuncia ecclesiastica è essa stessa basata sulle costrizioni fonologiche del toscano al tempo, ed erano le stesse per /dz/ che per /ts/. Solo la maggior rarità e la "foresticità" in latino di quel fono varrebbero come differenze concrete. Tuttavia il fatto che il Tolomei non faccia esempi espliciti di questo tipo e porti solo l'esempio di un /dz/ iniziale mi mette parecchio in dubbio visto che di certo non era un ignorante. Inoltre, chiedo perdono se Nazaret, Lazaro e amazone sono tutte parole sdrucciole e in cui quindi /dz/ è suscettibile di raddoppiamento spontaneo in ogni caso, ma non me ne vengono altre ora, spero che chi risponde mi possa venire in aiuto.

2) Se e, né, o erano detti /E nE O/, c'è qualche suggerimento da qualche parte di una possibile pronuncia /pEr/ in tempi danteschi? E' noto che nel rinascimento la pronuncia chiusa si fosse già affermata, così mi risulta dalla lettera del Trissino, ed anzi la Chiave della Toscana Pronunzia di Bernardino Ambrogi https://www.google.it/books/edition/Chi ... frontcover, che conferma esplicitamente il valore aperto per e, né ed implicitamente per o, la riporta come prima tra le eccezioni alla "regola" dell'apertura della E prima di R: "Per, Pero, solamente quando non è Verbo, dicendosi allora Pèro, che è l'istesso, che Perisco, Cera, Vero, sia nome, od avverbio...". Però l'etimologia concorderebbe con una possibile pronuncia aperta, che di sicuro è quella volgare che ha portato alle forme tipo par in varie lingue galloromanze. Notabilmente (?) nella Toscana medievale, nonostante molti oscillamenti nelle pretoniche e nel nesso -er-, forme del tipo in -a- non si ritrovino. Che possa essere accettabile come prova di una chiusura antica? C'è, in assoluto, un qualunque indizio?

3) In ultimo: parole come "scienza, sciente, nesciente" prima dell'eliminazione di /j/ in cielo, gielo sarebbero state pronunciate con un dittongo anch'esse? Spesso la -i- fa sillaba in poesia, e quindi uno si aspetterebbe una pronuncia effettiva, ma lo stesso si può dire per "religione" o "ufficiale" (di certo in poeti successivi sì. Era lo stesso al tempo di Dante per questi due suoni o sto prendendo una cantonata colossale? c'è il "Flegïàs, Flegïàs", ma non mi vengono in mente parole più ordinarie... probabilmente sì, ad ogni modo). Si può tirar dentro la pronuncia napoletana, ma quella potrebbe forse essere definita più una lettura in base all'ortografia come in "cielo", che di certo alcuni dicono così in italiano solo per com'è scritto.

In ogni caso, qualsiasi forma di aiuto, pure fosse un'indicazione su dove continuare le mie ricerche, sarebbe di valore inestimabile.
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Re: Minuzie fonetiche del fiorentino al tempo di Dante

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Benvenuto. :) Purtroppo non posso aiutarla in generale, non intendendomi dell'italiano antico. Solo due osservazioni:
angiolierifan1260 ha scritto: sab, 11 ott 2025 4:03 […] anche da frasi del Salviati deduco quindi l'affermazione più generale che /ts/ e /dz/ non erano ancora autogeminanti, e quindi il sonetto del Petrarca principiava: ['dzEfiro 'torna], certo più leggiadro di come oggi direbbe chi usa la dizione (o quasi chiunque venga dall'Italia centrale) ['dz:Efiro 'torna].
Il raddoppiamento si verifica solo se la sequenza risultante è possibile all'interno delle strutture dell'italiano, e una doppia zeta in principio di frase (o qualunque altro fonema consonantico raddoppiato nella stessa posizione) mi sembra impossibile: è sicuro che la gente dica così?
angiolierifan1260 ha scritto: sab, 11 ott 2025 4:03 Inoltre, chiedo perdono se Nazaret, Lazaro e amazone sono tutte parole sdrucciole e in cui quindi /dz/ è suscettibile di raddoppiamento spontaneo in ogni caso, ma non me ne vengono altre ora, spero che chi risponde mi possa venire in aiuto.
Mi viene in mente l'adattamento Nazarètte, usato in rima da Dante (Paradiso, IX, 137).
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Re: Minuzie fonetiche del fiorentino al tempo di Dante

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angiolierifan1260 ha scritto: sab, 11 ott 2025 4:03 3) In ultimo: parole come "scienza, sciente, nesciente" prima dell'eliminazione di /j/ in cielo, gielo sarebbero state pronunciate con un dittongo anch'esse? Spesso la -i- fa sillaba in poesia, e quindi uno si aspetterebbe una pronuncia effettiva, ma lo stesso si può dire per "religione" o "ufficiale" (di certo in poeti successivi sì. Era lo stesso al tempo di Dante per questi due suoni o sto prendendo una cantonata colossale? c'è il "Flegïàs, Flegïàs", ma non mi vengono in mente parole più ordinarie... probabilmente sì, ad ogni modo). Si può tirar dentro la pronuncia napoletana, ma quella potrebbe forse essere definita più una lettura in base all'ortografia come in "cielo", che di certo alcuni dicono così in italiano solo per com'è scritto.
Non ho materiale sottomano, ma mi pare che in passato scienza, coscienza ecc. fossero, data anche la loro natura di parole dotte, /*ʃiˈɛnt͡sa, koʃʃiˈɛnt͡sa/ ecc.
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Re: Minuzie fonetiche del fiorentino al tempo di Dante

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G. M. ha scritto: sab, 11 ott 2025 15:21 Il raddoppiamento si verifica solo se la sequenza risultante è possibile all'interno delle strutture dell'italiano, e una doppia zeta in principio di frase (o qualunque altro fonema consonantico raddoppiato nella stessa posizione) mi sembra impossibile: è sicuro che la gente dica così?
Sicurissimamente in Italia centrale (Roma, Terni, Ciociaria - dal riscontro in privato con @Lorenzo Federici) l'autogeminazione è valida in principio assoluto di frase, dove anche per gli istruiti pronunciare "zzoppo, zzanzara, ggnocco, ggli animali, sscemo" è la norma, oltre ai dialettali "bbasta, ggelato" - in cui una pronuncia non geminata è segno sicuro di una non nostranità. Forse non ha il valore di una geminata piena tra vocali, ma si distingue bene la differenza tra "per gnocchi" e "ggnocchi". Riconosco che si tratta di casi limite molto rari. Inoltre, dai rilievi dall'AIS per parole come "sciamare", pare che nel 1922-25 tali pronunce fossero più rare o meno distinte, ma comunque noi oggi parliamo così.

Riguardo la Toscana e la pronuncia standard, il DOP sembra suggerire una pronuncia scempia. ma onestamente non mi è mai capitato di sentire in nessun doppiaggio una pronuncia come ['Semo] invece che ['S:emo] (per scemo), ergo non mi sembra corrispondere affatto all'uso reale la prescrizione del detto DOP. Si vedano questi due filmati di insegnanti di dizione: Di cui il secondo ha una pronuncia un po' teatralizzata, ma si sente chiaramente che queste due donne adottano una pronuncia geminata [dz:-] [ts:-] dopo pausa.
G. M. ha scritto: sab, 11 ott 2025 15:21 Mi viene in mente l'adattamento Nazarètte, usato in rima da Dante (Paradiso, IX, 137).
Il problema è capire se rappresentasse solo un cultismo grafico! Temo sia un problema insolubile.
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angiolierifan1260 ha scritto: sab, 11 ott 2025 20:21
G. M. ha scritto: sab, 11 ott 2025 15:21 Il raddoppiamento si verifica solo se la sequenza risultante è possibile all'interno delle strutture dell'italiano, e una doppia zeta in principio di frase (o qualunque altro fonema consonantico raddoppiato nella stessa posizione) mi sembra impossibile: è sicuro che la gente dica così?
Sicurissimamente in Italia centrale (Roma, Terni, Ciociaria - dal riscontro in privato con @Lorenzo Federici) l'autogeminazione
L’«autogeminazione» non c’entra nulla. Si tratta del semplice fatto che le consonanti in posizione iniziale sono lievemente piú lunghe che in posizione mediana (quando siano scempie, ovviamente). Sul piano fonetico, Castellani arrivava a distinguere addirittura quattro gradi consonantici: anche la prima [t] di tata è piú intensa (lunga) della seconda. ;) Ma «[s]ul piano fonologico ha rilevanza la sola opposizione (in posizione intervocalica o tra vocale e liquida) tra consonanti di grado tenue (scempie) e di grado forte (doppie)» (Larson, Fonologia, loc. cit., sott. mia).

Fra l’altro, nel capitolo del Larson dovrebbe trovare risposta a molti dei suoi dubbi… ;)
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Re: Minuzie fonetiche del fiorentino al tempo di Dante

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Carnby ha scritto: sab, 11 ott 2025 18:42 Non ho materiale sottomano, ma mi pare che in passato scienza, coscienza ecc. fossero, data anche la loro natura di parole dotte, /*ʃiˈɛnt͡sa, koʃʃiˈɛnt͡sa/ ecc.
È cosí: si veda, per esempio, il DOP, s.vv. :) Ma si noti (= @angiolierifan1260 noti) che si tratta di un [i] vocalico pieno, come correttamente trascritto da Carnby e dal DOP (e quindi anche di una sillaba in piú), non di un [j]. ;)
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Re: Minuzie fonetiche del fiorentino al tempo di Dante

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Infarinato ha scritto: sab, 11 ott 2025 20:33 L’«autogeminazione» non c’entra nulla. Si tratta del semplice fatto che le consonanti in posizione iniziale sono lievemente piú lunghe che in posizione mediana (quando siano scempie, ovviamente).
Fatto sta che noi pronunciamo distintamente quasi come una geminata mediale le autogeminanti iniziali, con una differenza quantomeno molto maggiore di quella che v'è in fiorentino tra la B di "buono" e quella di "libero"; tant'è che il Belli a Roma trovò necessario spesso scrivere "bbono", anche in posizione iniziale assoluta. Ed io la stessa differenza la sento nella consonante di "scemo" tanto da noi che nella dizione degli attori. Certo è che noi avremo una differenza anche tra il [p] in "pace" e "capo", ma nessuno ha mai scritto "*ppace". Insomma, questa sua spiegazione universale articolatoria non vale almeno per il mio accento. Ma forse è così nella pronuncia fiorentina e davvero si pronuncia ['Semo] con la stessa intensità di ['sjEpe], o comunque con la stessa differenza che v'è tra le due T di "tata"? In tal caso confesso la mia ignoranza.
Infarinato ha scritto: sab, 11 ott 2025 20:33 Fra l’altro, nel capitolo del Larson dovrebbe trovare risposta a molti dei suoi dubbi… ;)
Se mi sapesse indicare a quale capitolo si riferisce sarei gratissimo.
Infarinato ha scritto: sab, 11 ott 2025 20:39 È cosí: si veda, per esempio, il DOP, s.vv. :) Ma si noti (= @angiolierifan1260 noti) che si tratta di un [i] vocalico pieno, come correttamente trascritto da Carnby e dal DOP (e quindi anche di una sillaba in piú), non di un [j]. ;)
Si trovano esempi in cui la -i- non fa sillaba? In caso contrario, la questione può dirsi risolta a favore della pronuncia sillabica di base.
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Fuori tema
angiolierifan1260 ha scritto: sab, 11 ott 2025 4:03 Essendo un amante della poesia antica, cerco sempre di avvicinarmi il più possibile alla pronuncia effettiva che avrebbe usato un dato autore. Ciò è ormai abbastanza facile e alquanto diffuso almeno tra i cultori per il latino e per il greco (chi non ne ha mai sentito parlare, vada cercando il nome di *** in interrete)…
Per dirla coi giovani d’oggi, «anche no», grazie. :) Del succitato «creatore di contenuti» apprezzo davvero la passione e lo sforzo divulgativo, ma ci sono molte imprecisioni in ciò che dice, e soprattutto rilevo una —mettiamola cosí— non perfetta conoscenza dei rudimenti del metodo scientifico, ahimè tipica dell’autodidatta interreziale…
angiolierifan1260 ha scritto: sab, 11 ott 2025 4:03 Dunque mi è venuto il ghiribizzo di saperne quanto più possibile sulla pronuncia al tempo delle tre Corone.
Che però non è la stessa per tutt’e tre. ;) Per esempio, Dante non avrebbe mai potuto far rimare baci /‑ʃ‑/ con taci /‑ʧ‑/, né cuce /‑ʃ‑/ con luce /‑ʧ‑/, mentre Petrarca o Boccaccio sí.
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angiolierifan1260 ha scritto: sab, 11 ott 2025 20:55 Fatto sta che noi pronunciamo distintamente quasi come una geminata mediale le autogeminanti iniziali, con una differenza quantomeno molto maggiore di quella che v'è in fiorentino tra la B di "buono" e quella di "libero"; tant'è che il Belli a Roma trovò necessario spesso scrivere "bbono", anche in posizione iniziale assoluta.
Certo, perché codesta è una scrizione —diremo— fonematica: nell’Italia centromeridionale (Toscana esclusa) [b] e [ʤ] sono sempre doppi (ovunque sia fonotatticamente possibile, ovviamente) per cui potremmo considerarli come fonemi lunghi /bb, ʤ/, che hanno anche dei tassofoni brevi, anziché, come si fa per l’italiano di base toscana, dei fonemi brevi che fonotatticamente possono anche comparire l’uno accanto all’altro.
angiolierifan1260 ha scritto: sab, 11 ott 2025 20:55
Infarinato ha scritto: sab, 11 ott 2025 20:33 Fra l’altro, nel capitolo del Larson dovrebbe trovare risposta a molti dei suoi dubbi… ;)
Se mi sapesse indicare a quale capitolo si riferisce sarei gratissimo.
Basta che segua il collegamento contenuto all’interno dell’intervento da me citato. ;)
Infarinato ha scritto: sab, 11 ott 2025 20:33 Si trovano esempi in cui la -i- non fa sillaba?
Non cambierebbe le cose: sarebbe in quel caso da considerarsi un’eccezionale sineresi.
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angiolierifan1260 ha scritto: sab, 11 ott 2025 4:03 b) il contrasto fino al Rinascimento tra /ts/ singolo e geminato in grazia contro azzione, indotto principalmente dai latinismi (sarei in dubbio su "strazio" che non è proprio un termine classico, ma rima con parole dotte ed ha comunque una natura opaca, dunque mi accontenterò in assenza d'altre prove di ['stratsio])…
Il contrasto era limitato a codesti soli casi, e strazio è una parola popolare (da un antecedente latino con -CTĬ-, fra l’altro), quindi sicuramente /-ʦʦj-/. Al di fuori delle voci dotte da antecedente latino con -- intervocalico, in italiano antico (= fiorentino dugentesco) [ʦ, ʣ] erano quindi autogeminanti come in italiano moderno: anche su questo, si veda il capitolo del Larson.
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angiolierifan1260 ha scritto: sab, 11 ott 2025 4:03 …prima dell'eliminazione di /j/ in cielo, gielo
La trafila (e l’effettiva realizzazione) fonetica di cielo e gielo non è cosi semplice né scontata: si veda questo mio vecchio intervento e quest’altro.
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Re: Minuzie fonetiche del fiorentino al tempo di Dante

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Infarinato ha scritto: sab, 11 ott 2025 21:30strazio è una parola popolare (da un antecedente latino con -CTĬ-, fra l’altro), quindi sicuramente /-ʦʦj-/.
E' voce del volgo, la cui forma però è quantomeno irregolare foneticamente. Azzardo: non potrebbe trattarsi di una forma del nord, con dissimilazione del -c- come in lact(e) > lait? E quindi avere come etimologia distra(i)zione? In ogni caso, Dante e Petrarca lo rimano con parole che sicuramente avevano /ts/ singolo. Che piegassero un termine popolare a una simile pronuncia solo per poesia? O che sia da considerare una sottocaratterizzazione della rima, come il rimare di "sposa" con "rosa"? Certo qualcosa di così rilevante per l'identità sillabica come la doppiezza o meno di una consonante sarebbe ancora più forzato. Inoltre, il Salviati fa tutto un elenco di rime che lui considera da oblitterare a causa della loro imperfezione come gorgo/scòrgo, legge/lègge, òcchi/tocchi, pensosa/spòza, e non fa rientrare "strazio - ringrazio" tra di esse; non ne parla proprio. Se però ci sono prove in contrario procedo a tacermi.
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Re: Minuzie fonetiche del fiorentino al tempo di Dante

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Infarinato ha scritto: sab, 11 ott 2025 20:33 Fra l’altro, nel capitolo del Larson dovrebbe trovare risposta a molti dei suoi dubbi… ;)
Ringrazio per l'indicazione, oltre che per le varie risposte, ed ho individuato i punti del documento che pertengono alla questione. Da un punto di vista sincronico (al tempo) e tralasciando le non-geminabili o eventuali altri gruppi che non pertengono a questo discorso, in quel documento si individuano tre classi di consonanti:
1 "Normali" come /p t k/
2 "Semi-autogeminanti" /ts dz/ (mi si perdoni lo scempio terminologico), che sono sempre singoli ad inizio di frase, ma una frase come "lo zio" ha pronuncia [lo t'tsio]
3 "Sempre geminate" /ʎ ɲ/ (per gn- credo manchino del tutto esempi in principio di parola, ma per /ʎ/ è detto semplicemente che è sempre intensa come in "meglio", dunque presumo valga anche per l'articolo "gli" da leggersi [ʎ:i]) e soprattutto /ʃʃ/ (tralasciando la forma singola), che può esser geminato anche ad inizio di parola e difatti non tollera mai l'articolo debole o un [n l r] subito prima.

A quanto ho capito il fatto che /ts dz/ non siano equiparati a /ʃ/ è dedotto dal fatto che tollerano a volte [n l r]. Ma perché allora dovrebbero essere "Mezze autogeminanti" sempre doppie in sintassi? Perché [suo t'tsio] e non semplicemente [suo 'tsio] per il fiorentino del tempo? Da che deriva un'idea simile? Seguirebbe forse il rasoio di Occam un modello in cui /ts dz/ sono semplicemente passati dalla classe 1 alla classe 3 alla quale oggi appartengono nel parlato di Toscana se non prendo un abbaglio, e di sicuro del centro-meridione. Non mi sembra venga menzionato un uso dell'articolo forte diverso che per qualsiasi altra consonante.
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angiolierifan1260 ha scritto: sab, 11 ott 2025 21:56 E' voce del volgo, la cui forma però è quantomeno irregolare foneticamente.
Diciamo che è una voce semidotta. ;)
angiolierifan1260 ha scritto: sab, 11 ott 2025 21:56 Azzardo: non potrebbe trattarsi di una forma del nord, con dissimilazione del -c- come in lact(e) > lait? E quindi avere come etimologia distra(i)zione?
Ma no, deriva direttamente dall’aferesi del nom. DISTRĂCTĬO.
angiolierifan1260 ha scritto: sab, 11 ott 2025 21:56 In ogni caso, Dante e Petrarca lo rimano con parole che sicuramente avevano /ts/ singolo. Che piegassero un termine popolare a una simile pronuncia solo per poesia? O che sia da considerare una sottocaratterizzazione della rima, come il rimare di "sposa" con "rosa"?
Presumo di sí. C’è inoltre da sottolineare come la pronuncia scempia di /ʦ/ in questi latinismi sia sempre stato qualcosa di abbastanza artificiale… (Per sposa e rosa intende il diverso timbro della vocale tonica, che nella prima dovette essere chiusa in origine? La s è sempre stata sonora in entrambe le parole.)
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Re: Minuzie fonetiche del fiorentino al tempo di Dante

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angiolierifan1260 ha scritto: sab, 11 ott 2025 22:55 3 "Sempre geminate" /ʎ ɲ/ (per gn- credo manchino del tutto esempi in principio di parola, ma per /ʎ/ è detto semplicemente che è sempre intensa come in "meglio", dunque presumo valga anche per l'articolo "gli" da leggersi [ʎ:i]) e soprattutto /ʃʃ/ (tralasciando la forma singola), che può esser geminato anche ad inizio di parola e difatti non tollera mai l'articolo debole o un [n l r] subito prima.
No, nessuna consonante in italiano antico o moderno può essere geminata in principio assoluto d’enunciato. Può essere tale in principio di parola se preceduta da parola terminante in vocale che produca raddoppiamento fonosintattico o qualora essa stessa cominci per /ʎ ɲ ʃ ʦ ʣ/.
angiolierifan1260 ha scritto: sab, 11 ott 2025 22:55 A quanto ho capito il fatto che /ts dz/ non siano equiparati a /ʃ/ è dedotto dal fatto che tollerano a volte [n l r]. Ma perché allora dovrebbero essere "Mezze autogeminanti" sempre doppie in sintassi? Perché [suo t'tsio] e non semplicemente [suo 'tsio] per il fiorentino del tempo? Da che deriva un'idea simile?
Dal fatto che si trovano scrizioni fiorentine dugentesche in cui tale raddoppiamento fonetico in confine di parola è raccolto sul piano grafico, e che la pronuncia naturale delle parole popolari preveda sempre rafforzamento intervocalico per queste consonanti (per le note ragioni di fonetica storica), e che la pronuncia scempia intervocalica sia invece un qualcosa di molto artificiale limitato a una sottoclasse di latinismi. ;)
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